Nembrot e la Babele delle lingue (Inf. XXXI)

 

 

“E come spiegare il tanto bistrattato verso Rafèl mai amech zabi almi  che trovasi nell’ Inferno canto XXXI, se non si ricorre all’ ebraica lingua o meglio alla talmudica, ch’è un misto di ebraico e caldaico, come adoperò spesso anche l’Immanuele nelle Mechaberod?” ([1]).

Flaminio Servi, in un libro del 1893, offriva una soluzione, a suo avviso,  decisiva,  al problema interpretativo sollevato dal famoso verso dantesco  “Rafèl mai amech zabi almi”, che, come tutti sanno, ha letteralmente dannato l’anima a generazioni di dantisti. In via preliminare, si tratta di saggiare la validità delle fonti su  cui il Salvi s’appoggiò: “l’Immanuele”  e il di lui amico Jona; e in seconda battuta anche la validità dell’assunto secondo cui la lingua di Nembrot sarebbe stata l’ebraica.

Riguardo al poeta ebraico Emmanuele Romano e alla traduzione  di Jona,  amico del Servi, è d’uopo soffermarsi su un paio di minuscoli dettagli. In primo luogo Servi, come molti altri studiosi del suo tempo (almeno fino agli anni ’20 del Novecento), era  assolutamente convinto che Emmanuele Romano, contemporaneo di Dante, e poeta di origini ebraiche,   fosse stato un amico “intimo” di Dante stesso;  talmente intimo, che, secondo Servi, sarebbe stato proprio costui a suggerire “di certo” a Dante la lezione corretta dei famosi versi di Nembrot: con ciò il Servi gli faceva assumere la veste di “fonte” dantesca. La cosa non regge, perché, com’è stato dimostrato, Dante conosceva a malapena Emmanuele Romano, o forse non lo conosceva per nulla. Codesta ipotesi si resse  “finché non intervenne lo studio del Cassuto a dimostrarne l’infondatezza”. Il tutto era infatti fondato su

“una corrispondenza scambiata tra Bosone di Gubbio e Immanuele in occasione della morte di Dante. Bosone nel sonetto Due lumi son di nuovo spenti al mondo, lamenta la scomparsa di Dante e di una donna cara a Immanuele; il quale, in un altro sonetto, risponde confermando il proprio dolore” ([2]).

Poi il Servi aggiungeva:

“ E quello che è più interessante,  lo diremo alla moderna,  è l’osservare come il poeta cristiano pur volendo adoprar parole suggeritegli di certo (sott. mia) dal poeta ebreo, poco pratico com’era nel trascriverle, si trovò come un pesce fuor d’acqua e ne storpiò più d’una, siccome fatto avea nel Pape Satan” ([3]). Le parole di Nembrot erano dunque di origine ebraica, e  il verso era stato tradotto dal suo “intimo amico” Jona  nel seguente modo:

“Lascia o Dio! Perché annientare la mia potenza nel mio mondo?”.

Secondo F. Servi, dunque,  Dante avrebbe  “storpiato” le parole (ebraiche)  di Nembrot. Una cinquantina e passa d’anni più tardi, anche A. Camilli, affrontando il verso di Nembrot, approdò più o meno alla stessa conclusione.

  1. Camilli, in un articolo del 1953 su Lingua Nostra, seguendo le orme di Domenico Guerri ([4]), per il quale la  frase di Nembrot era la somma di “cinque” parole ebraiche,  era convinto che per Dante  “le lingue babeliche” fossero sorte  “per un’ improvvisa deformazione […] della madrelingua ebraica”:

“ Se le lingue babeliche nacquero per un’improvvisa deformazione, diversa per ogni parlante, di suoni, forme, costrutti e significati dalla madrelingua ebraica, è ragionevole pensare che Dante, a rendere le parole babeliche di Nembrotte, debba avere storpiato, sia nella forma sia nel significato, delle parole ebraiche, quali ne poteva trovare nel ‘liber de nominibus hebraicis’ di S. Girolamo, nelle glosse bibliche e nei lessici” ([5]). In virtù della convinzione di una matrice ebraica della lingua di Nembrot, il Camilli  diede la propria “interpretazione” del verso:

Raph El, Maí Amèch Zabí Aàlmi?, traducendo in latino: Homines Divi, cur relinquitis aedificium almum? [O uomini divini, perché abbandonaste la Casa dello Spirito?] ([6]).

In conclusione, per un numero piuttosto consistente di esegeti, la grammatica e il lessico del verso di Nembrot erano di origine ebraica. Nulla da opporre in via di principio: ma se le cose stessero in siffatto modo, perché s’è assistito, nel corso del tempo, alla proliferazione senza soluzione di continuità d’interpretazioni tanto diverse l’una dall’altra, che soprattutto scoprirono il fianco a critiche molto severe?  La traduzione di Jona, per esempio, fu fatta, secondo Asher Salah,  “in an imaginative way” [ “in modo un po’ fantasioso”] . Con specifico riferimento allo studio di Servi , Asher Salah scriveva:

“A certain Jona, quoted by F. Servi, ‘Dante e gli ebrei’ (Casale 1893, p. 13), translates this verse in an imaginative way:

“Lascia o Dio perché annientare la mia potenza nel mio mondo?”.

Lo stesso A. Salah aggiungeva, inoltre,  che uno studioso italiano della Bibbia, Giuseppe Barzilai,  aveva  “tradotto” il criptico verso di Nembrot come segue:

“How deep is the fog! Go around, World!” [“Che nebbia fitta! Gira, mondo, gira!”] ([7]).

Che sembrerebbe più che altro   un invito a riflettere sul fatto  che nel mondo sublunare si viaggia  a “naso”, e un po’ a casaccio,  immersi in   una nebbia profonda.

L’unica cosa certa è che s’è passati dalla Babele delle lingue alla Babele delle interpretazioni, con risultati contraddittori e molto difformi, spesso  anche dovuti alla variegata lezione dei codici.

L’idea del Servi, intanto, che Dante si fosse mostrato  “poco pratico […] nel trascriverle” è inaccettabile per una semplice ragione:

come avrebbe potuto mai fare Dante a dare un saggio di un linguaggio “a niuno noto”, se egli avesse pari pari messo insieme quelle presunte quattro-cinque parole di origine ebraica  trascrivendole “correttamente”? In siffatto caso,  la lingua di Nembrot, anziché apparire “ignota” a tutti, si sarebbe rivelata a tutti ben nota, per cui l’intento di Dante di presentare una lingua “sconosciuta” sarebbe stato vanificato da lui stesso: se egli cioè non avesse storpiato parole “sicuramente”, come si dice,  ebraiche, non sarebbe stato al riparo dal fatto che qualche esegeta versato nella lingua ebraica, un giorno o l’altro, potesse scoprire  gli “arcana” celati del verso di Nembrot, andando alla fonte di quelle “storpiature”. Di qui nasce anche il sospetto che Dante, come suggerì Paolo Costa, potesse aver attinto a più lingue, forse d’origine araba o siriaca ([8])

Il convincimento del Servi, del Camilli et alii si sarebbe appoggiato comunque su un passo del De Vulgari Eloquentia (I, VI, 5), in cui Dante avrebbe mostrato di credere che la lingua ebraica fosse stata in assoluto la prima lingua del mondo.

Senonché  Bruno Nardi, in un  intervento di parecchi anni  fa, sottolineò un dato oggi universalmente acquisito, e cioè che Dante rettificò nella Commedia quanto asserito  nel De Vulgari Eloquentia, in cui si rassegnava, diceva Nardi,  “ ad ammettere che Adamo parlasse ebraico, che l’ebraico fosse la lingua di tutti gli uomini prima della confusione, e che dopo la confusione l’ebraico, cioè la lingua d’Adamo, si conservasse ancora presso gli ebrei” ([9]).  Dante operò una rettifica di tale opinione nella Commedia, facendo parlare lo stesso Adamo, che  corresse l’antica ed errata opinione del poeta, e da cui si arguisce anche il fatto non secondario che egli non credeva affatto all’improvvisa scomparsa delle lingue, ma, più modernamente, a una loro lenta evoluzione. Ecco il passo in cui parla Adamo:

La lingua ch’io parlai fu tutta spenta/ innanzi che all’ovra inconsummabile/ fosse la gente di Nembrot attenta. Pria ch’io scendessi a l’infernale ambascia,/ I s’appellava in terra il sommo bene/ e El si chiamò poi.

Di qui dunque ne consegue che,  per il Dante della Commedia, quello che “qui” c’interessa,  l’ebraica non fosse stata lingua primigenia. Ma allora, se l’ebraico non fu la “prima” lingua, come hanno fatto legioni d’interpreti a ricavare “parole ebraiche” dal verso di Nembrot? Un’illusione ottica collettiva operata da Fata Morgana  su un background in cui si voleva per forza vedere ciò che non c’era? Per l’impossibilità di verificare con prove provate da quale “serbatoio” Dante avesse tratto quelle “cinque” parole enunciate da Nembrot; e, soprattutto, per la “profondità” delle “storpiature” sicuramente apportate da Dante sul corpo di quelle parole, concorderei  con gli allora “recenti commentatori” citati dal Camilli, secondo i quali il linguaggio di Nembrot è “incomprensibile”, secondo la definizione datane dal Del Lungo ([10]).

Ancora una volta ci si scontra con la dura realtà: ovvero che nessuno degli esegeti di Dante è riuscito, fino ad oggi, a scovare il  significato dei cinque “verba” costituenti il verso di Nembrot, che rimase e rimane “impenetrabile”.  Persino lo stesso Virgilio, che la sapeva lunga,  aveva invitato il suo curioso allievo a “lasciar perdere”, perché, tanto, diceva l’avveduta guida,  quel linguaggio era “a niuno noto”. In conclusione, non sapremo forse mai il significato delle parole  “ Rafèl mai amech zabi almi”, semmai esse ne possiedono uno: cosa di cui dubito fieramente. Il Servi e altri dopo di lui erano assolutamente convinti che le parole di Nembrot avessero un “significato”. A. Camilli  scrisse:

“Se quello di Nembrotte è un linguaggio, un significato […] deve ben averlo avuto, giacché un linguaggio che non significhi nulla non s’è mai dato” ([11]).

Se  grammatica e lessico ebraici del verso di Nembrot paiono essere non solo incomprensibili, ma addirittura insussistenti,  è tuttavia indubbio che un “senso” quel verso ce l’ha, poiché tutto a questo mondo possiede un “senso”, anche ciò che in apparenza appare “insensato”. Il “senso” del verso di Nembrot evidentemente trascende, andando “oltre”, il significato ignoto delle parole che lo compongono, proponendo se stesso come “senso allegorico”. Se d’allegoria si tratta, allora questa non può essere un’ allegoria in verbis, poiché nessuna delle parole che troviamo nel verso di Nembrot è “decodificabile”, nonostante gli sforzi compiuti. Quindi, l’allegoria soggiacente al verso di Nembrot dev’essere interpretata come un’ allegoria in factis, che rinvia a un qualcosa di extralinguistico, a un dato “incarnatosi”  nella storia.

L’ultima “spiaggia libera” su cui cercare un approdo è dunque  quella di chiedersi  “perché” Dante lavorò in siffatta maniera “sulla” lingua di Nembrot. Il modello ermeneutico figurale potrebbe portarci al conseguimento di un qualche risultato non proprio peregrino, mettendoci, almeno, nella condizione non tanto di conoscere l’impossibile  significato “interno” del famoso verso  di Nembrot, quanto, e sarebbe già un passo in avanti, di intuire, come dicevo,  la ragione profonda dell’ “invenzione” linguistica di Dante.

Maria Corti ci erudisce che “l’episodio biblico della Torre di Babele è un’ allegoria in factis, in quanto prefigurazione di un grande fatto del Nuovo Testamento, la discesa dello Spirito Santo” ([12]). Tuttavia l’ allegoria in factis della Torre di Babele a poco a poco s’allontanò dalla sua originaria “prefigurazione di un grande fatto del Nuovo Testamento”, per andare a interessare le strutture della città tradizionale, quella cioè “del buon tempo antico” evocata nostalgicamente da Cacciaguida. Ormai, ai tempi di Dante, la città era definitivamente diventata, senza possibilità d’appello, la civitas diaboli, “il luogo in cui si producono tutte le lacerazioni della tradizione, dove gli homines novi, creando gli status”, hanno messo in crisi “il modello gerarchico piramidale dei tres ordines (oratores, bellatoreslaboratores)  ([13]).

Di qui “la frequente identificazione della città come Babele”, per cui la primigenia allegoria in factis della “confusio babelica” si trasfonde nella “moderna” confusio delle strutture politiche e sociali della civitas fiorentina dei tempi di Dante: una civitas, dice Dante, in cui era diventato impossibile trovare un punto d’incontro fra cittadini, essendo essa irrimediabilmente “partita”,  dove cioè non esisteva più una “lingua comune” che potesse avvicinare i fiorentini gli uni agli altri.

“Ma”, in un tempo che agli occhi di Dante appariva ormai del tutto “antico”, tale lingua “esistette”: e la prova di codesta “esistenza” sarebbe data dalla lingua di Nembrot, ormai a tutti “ignota”. Nembrot, sottolinea la Corti, infatti

“apparirà come il solo parlante di una lingua a tutti ignota perché il solo che, in quanto capo, era al di sopra di ogni raggruppamento sociale” ([14]).

Anche se l’ allegoria in factis non ci fornisce la chiave per aprire la porta che conduce al  “significato” di “quelle” parole di Nembrot, almeno ci rinvia  alla simbologia d’una Firenze “babelica”, e alla “confusio”  regnante in quella che ormai, agli occhi di Dante, era solo una “civitas diaboli”. Non sarà molto, ma codesto pare (a me) un passo in avanti rispetto alla tradizionale esegesi dantesca, che, soffermandosi  sulla “necessaria” presenza di un  presunto “significato letterale” di parole ricavate da una “presunta” lingua ebraica nel verso di Nembrot, ha trascurato quella “visione d’insieme” che invece ci dischiude l’ allegoria in factis,  che getta un fascio di nuova luce su quell’ “invenzione” che Dante escogitò lì per lì,  da un lato per rendere, quasi  “visivamente”, direi (come se avesse calcato la mano per vergare uno “scarabocchio”, tutto per l’ “occhio”), il concetto di confusio babelica delle lingue; e dall’altro per dar vita a una allegoria in factis che preconizzava l’inappellabile stigma divino  sulla situazione politica e sociale in cui si sarebbe trovata Firenze, città irrimediabilmente “partita” in un futuro molto prossimo.

 

 

 

Note

 

[1] Dante e gli Ebrei. Studio di Flaminio Servi, Casale, Tipografia Giovanni Pane, 1893, p. 13.

2)  Cfr. “Enciclopedia Dantesca”, voce “Immanuele Giudeo”, in G. Battistoni, Dante, Verona e la cultura ebraica, Firenze, La Giuntina, 2004, p. 47. G. Battistoni si diffonde a lungo sul tema. Cfr. anche il cap. “Manoello Giudeo ‘amico’ di Dante”, p. 43 sgg.

3)  Dante e gli Ebrei, cit., p. 13.

4)   Domenico Guerri, Di alcuni versi dotti della Divina Commedia, Città di Castello, Lapi, 1908, pp. 21-47.

5) A. Camilli, “Il linguaggio di Nembrotto”, in Lingua Nostra, 1953, pp. 39-40, p. 39.

6) Ivi, p. 40. Milone di Saint-Amand (IX sec.) rilevava (I, 115) che “sacrum, almum è usato come sinonimo di Spiritus” (Milone di Saint-Amand, Vita Sancti Amandi Metrica, a cura di Corinna Bottiglieri, Firenze, Sismel,  Edizioni del Galluzzo, 2006, p. 106).

7) Cfr.  A. Salah, “A Matter of Quotation: Dante and the Literary Identity of Jews in Italy”, in The Italia Judaica Jubilee Conference, a cura di Shlomo Simonsohn, Joseph Shatzmiller, 2010,  p. 184 e nota 51.

8) La Divina Commedia di Dante Alghieri di Paolo Costa, Milano, 1827, p. 254 nota 67 [Cfr. Inf. XXXI, v. 67].

9) B. Nardi,  “Il Canto XXVI del Paradiso” in L’Alighieri, 1985, n. 1, pp. 31-32.

10) A. Camilli, Il linguaggio di Nembrotto, cit., p. 39.

11)  Ibidem.

12) Maria Corti, “Dante e la Torre di Babele: una nuova ‘allegoria in factis’, in Il viaggio testuale. Le ideologie e le strutture semiotiche, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1978, p. 246.

13) Ivi, pp. 247-248.

14) Ivi, p. 252.

 

 

 

 

 

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.