Due falsi d’autore attribuiti a Guido Cavalcanti

 

In un recente articolo su Inferno, X, 58-63,  cercavo di di-mostrare le ragioni per cui Guido Cavalcanti provava disdegno nei confronti di Virgilio. A tal proposito, insistevo sul fatto che Guido professava, per tradizione familiare, una qualche forma di catarismo. La setta, come si evince da molti studi sull’argomento, era fieramente avversa al profetismo e ai profeti in generale, ritenuti falsi e pressoché ispirati da Satana.

 

L’ipotesi da me ventilata sarebbe stata molto più agevole a dimostrarsi se, e soltanto se, avessi potuto far riferimento ad alcune liriche di Guido Cavalcanti che troviamo presenti in un’edizione dei primi dell’Ottocento approntata da Antonio Cicciaporci (1), le quali tuttavia non hanno resistito al vaglio della critica, essendo stato dimostrato essere dei falsi belli e buoni.  Ne cito alcuni versi:

 

Il moto,  il corso,  e l’opra di fortuna,

E quanto in lei s’aduna,

Moto riceve dal primo Motore

Per guisa tal, che non è mente alcuna,

Che possa chiara, o bruna

Antiveder la via del guidatore.

(Ediz. Cicciaporci, IV, p. 52)

 

La fortuna, il caso, il fato o sorte che dir si voglia “riceve” la sua “spinta” dal “primo Motore” (Dio); “per guisa tal”, ossia di modo che  non v’è mente umana che possa profetizzare, “antiveder”,  la sorte buona o cattiva che ci riserva il  “Guidatore”, ossia la Fortuna mossa da Dio. Questi versi, accolti nell’edizione del Cicciaporci, furono in seguito espunti. Ma, se fossero stati “realmente” di Guido Cavalcanti,  essi avrebbero potuto aprire la strada  ad una più agevole comprensione delle ragioni per le quali  nacque il disdegno di Guido nei confronti del profeta Virgilio.

 

In tali versi vedrei anzitutto in Guido un poeta  con forti tinte  aristoteliche ed  averroistiche, discorrendo egli d’un “primo Motore” che muove a sua volta i  destini umani attraverso la Fortuna. In questa lirica, per esempio, potremmo rinvenire  che la vita degli uomini è completamente nelle mani dell’aristotelico “Primo Motore” o Dio, e della sua “ministra”, la Fortuna, la sorte. L’uomo è completamente nelle mani di Dio, l’unico “onnisciente”, e della  Fortuna, che, a Dio subordinata, ne esegue la volontà, in forza della quale mutano repentinamente i destini degli imperi e degli uomini.  Secondo lo pseudo-Cavalcanti  non c’è assolutamente nessun uomo, nessuna “mente umana”,  in qualsiasi epoca della storia, che possa “antivedere” il futuro: questa è soltanto una prerogativa divina: non c’è quindi uomo o essere vivente che possa “profetizzare” il futuro, neppure Virgilio, come credeva Dante. Il concetto appena esposto si può riscontrare agevolmente in un’altra  lirica dello pseudo-Cavalcanti, come questa, per esempio:

 

Non è nel mortal regno mente alcuna

Che sappia il volgimento di mia nave.

(Ediz. Cicciaporci, VI, p. 58. Incipit: E s’ei non fosse il poco meno e ’l presso).

 

Non c’è mente umana per quanto possente, sotto il cielo della luna, cioè in terra, che sappia in anticipo profetizzare come sarà lo svolgimento della mia vita (mia nave). Il “primo Mobile”, l’unico onnisciente,  e la Fortuna sono pertanto gli unici “depositari” degli eventi futuri; mentre, per contrario,  non esiste “mente umana” che possa arrogarsi la facoltà di profetizzare e di antivedere gli eventi futuri. Ergo, non c’è profeta che tenga: da ciò ne corre che né Virgilio né tantomeno Dante erano profeti.

 

Lo pseudo-Cavalcanti in ciò  dimostrerebbe essere dunque un filosofo aristotelico, nonché un averroista tutt’altro che sui generis. Vediamo perché. Partiamo dalla  Fortuna, che come abbiamo visto, governerebbe i destini umani. Il tema della “fortuna”, di forte sapore machiavelliano,  aveva una sua “tradizionale soluzione averroistica”, la quale consisteva “da un lato nella ammissione della casualità, dall’altro in una sua funzionalizzazione alla felicitas cioè alla vita intellettuale” (2), concetto a cui il Cavalcanti autentico era particolarmente affezionato, ritenendo egli  la “rocca”, o “casser della mente”  “il luogo più elevato dell’anima, la potenza intellettuale-emozionale più nobile in tutto lo spazio dell’interiorità” (3).

 

Quanto poi all’avversione dello pseudo-Cavalcanti per la profezia, l’averroismo aveva qualcosa da ridire anche a tal proposito. Alberto Magno, interprete di Aristotele e dell’averroismo, nutriva severi dubbi  circa la “possibilità che l’intelletto umano arrivi a congiungersi coll’ intelligentia agens [Dio] e col mondo dei puri spiriti”. E ciò beninteso, colle sole sue forze naturali, indipendentemente dalla rivelazione sovrannaturale” [sottolineatura mia], al di fuori, cioè, delle divinis inspirationibus (4). E’ altresì evidente che Virgilio, siccome “pagano”, non poteva godere dell’ausilio delle divinis inspirationibus: e in forza di ciò egli non poteva, sic et simpliceter,  agli occhi dello  pseudo-Cavalcanti, e probabilmente anche a quelli del Cavalcanti autentico,  essere considerato un “vero” profeta.

 

Va da sé che siamo giunti a siffatte conclusioni attraverso due “falsi” attribuiti a Guido Cavalcanti, e accolti nell’edizione approntata da Antonio Cicciaporci. Si noterà altresì che i nostri risultati, che vedono nello  pseudo-Cavalcanti un “eretico averroista” non si discordano poi molto da quelli cui è giunta la critica sul Cavalcanti “autentico”, il quale, nella quasi totalità dei casi, e con qualche lieve distinguo, è considerato  un averroista convinto. C’è da dire altresì che, per quanto abbiamo potuto appurare, nelle vene del Cicciaporci scorreva il nobile sangue di Guido Cavalcanti; infatti,  Antonio Cicciaporci è stato da varie fonti indicato come un diretto “discendente” di Guido Cavalcanti. Del resto, lo stesso Antonio Cicciaporci, nella dedica delle sue Rime di Guido Cavalcanti alla Signora Anna Rinieri De’ Rocchi, si definiva “parente” dello stesso Guido:

 

“Ho creduto bene di premettere alle Rime alcune Memorie della Vita e delle Opere di Guido che mi è riuscito di accozzare nella scarsità in cui siamo di notizie delle cose di lui. Ma io non voglio ora tediarvi né con dare a Voi un preciso ragguaglio di questo lavoro né col farvi la mia apologia. Vi basti adunque di sapere eh io v’indirizzo le Rime edite ed inedite di Guido Cavalcanti,  perché vi appartengono come a parente, e che io ve le offro e le pubblico sotto i vostri auspicj in pubblico contrassegno e testimonianza della sincera stima e del rispetto col quale mi soscrivo Antonio Cicciaporci” (5).

 

I due “falsi” dello pseudo-Cavalcanti  in qualche modo hanno, potremmo quasi dire,  un “rapporto” di consanguineità con lo stesso Cavalcanti, avendo altresì il Cicciaporci tutto sommato rintracciato e attribuiti a Guido Cavalcanti testi di un certo rilievo, che “rispecchiavano” il pensiero “averroistico” dell’augusto proavo.

G. Gorni scrive a tal proposito:

 

“Si sappia che  la prima edizione completa e autonoma delle rime del Cavalcanti, stampata a Firenze nel 1813 da Antonio Cicciaporci, raccoglie sotto il nome di Guido ben diciannove canzoni di cui oggi s’è perduta la traccia. L’ultimo editore critico, Guido Favati, non ne fa motto. E dire che in alcuni casi  di tratta, con ogni evidenza, di testi antichi, anche trecenteschi: non certo opera di Guido, ma componimenti di pregio culturale non comune [Sottolineatura mia]. Spariti, e mai più letti,  credo, neppure dagli specialisti” (6).

 

Le due liriche da cui siamo partiti per “dimostrare” donde provenisse il disdegno di Guido verso Virgilio sarebbero pertanto “componimenti di pregio culturale non comune” e  “degni” del grande “primo amico” di Dante, tanto da poterli  definire dei “falsi d’autore”.

 

Per quanto riguarda, infine,  il  presunto “ateismo” di Guido, , propenderei  a concordare con quanto scrisse icasticamente A. Del Noce a proposito dell’ateismo dei filosofi medievali:

 

“ Non si può parlare di un ateismo medievale […] L’ateismo è  per il pensiero medioevale piuttosto una possibilità logica, avanzata da una sempre battuta obiettante che una posizione reale […] E San Tommaso si è diretto contro gli averroisti, che non erano atei in senso rigoroso” [Sottolineatura mia] (7).

 

Il che s’ attaglia perfettamente al cogitabondo filosofo descritto dal Boccaccio, tutto proteso nelle sue cogitazioni a “dimostrare che Iddio non fusse”. Certo che, per dirla con le parole di Maria Corti, Guido “dovette ad un certo momento apparire a Dante su un’altra sponda” (8).

 

La “sponda”, appunto, degli eretici.

 

 

 

Note

 

1)      Rime di Guido Cavalcanti, edite ed inedite. Aggiuntovi un volgarizzamento antico non mai pubblicato del Comento [sic] di Dino del Garbo  sulla Canzone Donna mi prega, per opera di Antonio Cicciaporci, Firenze, Presso Niccolò Carli, 1813.

2)      N. Badaloni, Inquietudini e fermenti di libertà nel Rinascimento italiano, ETS, 2004,  p. 9.

3)      M. Mocan, La trasparenza e il riflesso: sull’alta fantasia in Dante e nel pensiero medievale, Milano, Bruno Mondadori, 2007,  p. 121.

4)      B. Nardi,  “La posizione di Alberto Magno di fronte all’averroismo”, in Studi di filosofia medievale, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1960, p. 121.

5)      Rime di Guido Cavalcanti, edite ed inedite, cit., , p. IV.

6)      G. Gorni, Metrica e analisi letteraria, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 261.

7)      A. del Noce, Da Cartesio a Rosmini: scritti vari …, a cura di F. Mercadante e B. Casadei, Giuffrè, 2002, p. 223.

8)      M. Corti, Scritti su Cavalcanti e Dante …, Torino, Einaudi, 2003,  p. 329.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.