Il debito nella letteratura e la “letteratura sul Debito (pubblico)”

Tutti sanno cos’è  il debito. Le lingue classiche, nonché quelle  moderne,  contemplano ampiamente il concetto. Scrivendo sul giornale bolognese Teatri, Arti e letteratura ancora nel 1853, un Dandy  osservava, scherzosamente:

Debito in italiano in latino Debitum, in greco Xpeos [Chreos] e Debt in inglese, Schuldt in tedesco,  Dette in francese,  in spagnuolo Deuda e Tangynaki  in chinese [sic].  Obbligazione di dare o restituire altrui checché si sia,  e s’ intende più comunemente di denari. Tale è la definizione che i buoni e i bravi accademici della Crusca danno a questo vocabolo,  senza definire o consigliare almeno come si fa a restituire quello che non si ha.  Debito è certo la parola del secolo,  e se gli si dovesse dare un nome, io credo che non già dovrebbesi chiamarlo il secolo del vapore,  ma sibbene quello dei debiti. E chi non ha debiti? Ogni classe della società, dal nobile al negoziante, dal negoziante al merciaio, dal merciaio al calzolaio, dal calzolaio al pitocco: tutti hanno debiti” (1).

 

Premesso che il termine cinese Tangynaki, chissà perché, mi fa più paura degli altri,  restando fermi ancora un po’ sul  terreno della filologia e della civiltà greca, vorrei menzionare come l’Ellade Classica avesse altresì coniato un termine altrettanto curioso, anche se meno pericoloso (anzi): creocopidi, da Xpeos,  con cui erano definiti gli amici di Solone, i quali, resi edotti del “progetto di questo legislatore di fare ai debitori una rimessa generale dei loro debiti, s’affrettarono a prendere in prestito delle grosse somme a grande interesse, per profittare del beneficio della legge” (2). Greche furbate.

 

Passando ora dall’etimologia alla letteratura, possiamo affermare senza tema di smentita che la letteratura “mondiale” è stracolma di autori  che scrissero sul debito, o che, meglio ancora, furono letteralmente subissati dai debiti.

 

Così Strepsiade, rovinato dai debiti procacciatigli da quello spendaccione di suo figlio,  nelle Nubi di Aristofane  si lamentava (3):

“ Orsù proviamoci russar se si può, coperti. Ahi misero!

Dormir non posso,  morso dallo spendere,

Dalla stalla e da’ debiti per causa

Di questo figlio mio”

 

Passando alla biografia, branca fondamentale della letteratura, citiamo alcuni esempi di scrittori italiani e non che furono sommersi dal debito. Un caso classico lo registriamo nella nostra letteratura medievale con Cecco Angiolieri, l’arcifamoso compositore del celeberrimo “S’i fossi foco, brucerei lo mondo”, i cui eredi, opportunamente e sagacemente, ne rifiutarono l’eredità, in quanto fatta più che altro, se non del tutto, di debiti. Tra i “moderni”, un ottimo esempio di scrittore indebitato fino alla radice dei capelli fu Dostoevskij, autore del famoso romanzo Il giocatore, notoriamente quasi sempre in bolletta e stracolmo di debiti, contratti per vita alquanto disordinata. Altro caso d’autore famoso si  registrò in Inghilterra con Walter Scott, costretto a sfornare romanzi a nastro per far fronte al debito sempre incombente.

 

Ma se il debito “ad personam” è un fenomeno che tutti comprendiamo, e spesso condividiamo  perfettamente, quando di passa a parlare di Debito (con la maiuscola) “pubblico” le cose si complicano. Qui le cifre diventano così stratosferiche che, a un certo punto, uno soprassiede, e s’occupa d’altro. Il Debito pubblico nella storia d’Italia  ha sempre mostrato un volto  corrucciato ed arcigno. Così, a qualche anno dall’Unità, S. Balsano, poteva asserire che

 

“Le finanze italiane sono gravate di un debito consolidato in lire 207,012,029 perpetuo, in lire 64,896,052 redimibile — totale lire 332,808,081. Havvi altro debito non incluso nel Gran Libro [del Debito pubblico] in lire 58,674, 351, ove sono compresi gl’interessi passivi delle varie obbligazioni emesse per la vendita dei beni demaniali, ecclesiastici, ecc. ecc.” (4).

 

In linea di massima e di principio possiamo dire, che, quando parliamo di Debito pubblico  si va in tilt, anche e soprattutto perché sull’argomento le scuole di pensiero sono parecchio divergenti. Lasciando stare i catastrofisti, e tutti quelli che fanno del Debito pubblico un pubblico ba-bau atto a incutere sacro terrore nelle menti dei cittadini-consumatori, vorrei soffermarmi invece su un autore “irenico” e pacificatore, che diede un’immagine del Debito pubblico non terrorizzante, ma persino invitante nonché consolante. Sin dal titolo Debito pubblico e sviluppo economico, Nino Galloni, autore del suddetto, apre i cuori alla speranza (5). Come si faccia a mettere insieme il diavolo (il Debito pubblico) con l’acquasanta (lo sviluppo economico)  sembrerebbe rientrare tra i  mysteria più fitti, d’origine quasi orfica; ma poi, leggendo qua e là, si riesce a farsene una ragione sufficiente.

 

Nell’Introibo Galloni intanto afferma che,

 

“Secondo le idee della finanza ortodossa, l’esistenza di un Debito pubblico elevato (in termini di prodotto interno o PIL) rappresenta un duplice problema, anzi, più precisamente, un duplice impedimento: per il presente e verso il futuro”. Per il presente il Debito pubblico “rappresenta l’incapacità della finanza pubblica di rivelarsi o neutrale o, addirittura, creatrice di risparmio, invece che distruttrice”.

 

Per il futuro, e in ispecie “nei confronti delle opportunità di sviluppo produttivo a favore delle nuove generazioni […] in condizioni di scarsità delle risorse, si assisterebbe ad una grave sottrazione di mezzi finanziari atti allo sviluppo economico futuro”. Mi dica il lettore se non è più che avvezzo a sentire la litania recitata dagli “ortodossi”, sempre tra i piedi coi loro “impedimenta dirimenta” alla don Abbondio.

 

Non è  neppure pensabile che, in siffatta sede, si riesca a render conto di tutti gli “argumenta contra” di Nino Galloni. Mi limiterò pertanto a citare qualche  passo molto intrigante riguardo la “disoccupazione”, che tanto travaglia la nostra società contemporanea. Comunque sia, il Galloni, dopo lunga disamina del problema e calcoli che lascio agli esperti,  osserva qualcosa di molto interessante che va contro l’ “ortodossia” imperante:

 

“In altri termini, egli scrive, si può ribaltare il discorso: la produttività di un sistema caratterizzato da disoccupazione e sostegno “esterno” del reddito da parte della spesa pubblica, cresce se crescono gli investimenti ( a livello di sistema ci si muoverebbe, pertanto, in un contesto di rendimenti crescenti ogniqualvolta un’ideale unità assistita venisse sostituita da una produttiva, ancorché a bassissimo rendimento). Dovrebbe essere, dunque,  il tasso di investimento la variabile che le autorità potrebbero porre al centro delle strategie di politica economica e monetaria […] Sono, ad esempio, gli investimenti pubblici finanziati con nuova moneta, purché si tratti di investimenti produttivi e non assistenziali, ad assicurare un’adeguata governabilità del sistema”.

Quindi Galloni conclude:

“Queste diverse prospettive del Debito pubblico sono dunque legate ad altrettante concezioni dell’economia: quella che vede l’investimento frutto del risparmio e chiede allo Stato di costruire invece che distruggere risorse; quella che vede, al contrario, il risparmio frutto dell’investimento, quella che vede nell’adattamento delle attività produttive future alle attività finanziarie presenti il senso di ciò che oggi avvertiamo come disagio, pericolo, minaccia, ma che, invece, potrebbe rappresentare il nocciolo del nuovo che è già sotto i nostri occhi”.

 

“Investimenti pubblici finanziati con nuova moneta”, per aumentare “la produttività di un sistema caratterizzato da disoccupazione”, e “il risparmio frutto dell’investimento” suonano bene, e, soprattutto, “limano” le asprezze della politica finanziaria degli “ortodossi”.

 

Altrimenti?

 

“In alternativa a questa non negativa prospettiva si nasconde la grande inflazione, il mostro giustiziere dei debiti che, colpendo chi dovrebbe pagare, fa strage dei crediti […] l’altra faccia dei debiti”.

 

Non sarebbe forse ora di essere un po’ più sordi nei confronti degli “ortodossi”? Come diceva ancora Nino Galloni, “la storia dell’economia è piena di queste vicende, ma, soprattutto, è piena di occasioni mancate, di speranze frustrate, di opportunità che potevano esser colte e non lo sono state”.

 

Leggi tu, o lettor, l’arcano che si cela dietro questi versi “strani”. Oppure vai a leggerti per intero l’articolo di Nino Galloni, scritto molti anni fa, ma sempre di grande attualità, e degnissimo d’appartenere alla più alta “letteratura sul Debito [pubblico]”.

 

Note

 

1)      “Il debito. Pensiero di un dandy l’ultimo giorno di Carnevale”, in Teatri, Arti e letteratura, Bologna, Tipografia Gov. Alla Volpe,  giovedì 10 marzo  1853, Anno 31°, Tomo 59, N. 1473,  p. 13.

2)      Dizionario etimologico di tutti i vocaboli …, Napoli, Marotta e Vanspandoch, 1822, p. 45.

3)      C. Cantù, Della letteratura greca, Torino, 1841, Vol. I, p. 145.

4)      S. Balsano, “La Questione finanziaria in Italia. Il Debito Pubblico”, in Rivista Sicula di scienze, Letteratura ed Arti, Palermo, Lauriel, 1869, Vol. I,  p. 179.

5)      N. Galloni, “Debito pubblico e sviluppo economico”, in Studium, settembre-ottobre 1990,  n. 5, p. 777, 782, 785.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.