Patuit Dea
Nell’aulente pineta le cicale
frinivano. Correa per il terreno
un non so qual baleno
d’orme guizzanti al suon del maestrale.
Ma quando ella v’apparve, ecco il rumore
e il tornear ristette:
molleggiò sulle vette
sospeso degli arguti pini il vento.
Né ronzar api alle purpuree more,
né zillar cavallette,
né, simili a saette,
schizzar ramarri nel silenzio intento;
s’udì sol l’affannato empito lento
delle ondate alla spiaggia cianciuglianti,
e su da’ palpitanti
vepri un lieve pel cielo frullar d’ale.
Tra il verde apparve più che cosa umana
a riguardarsi bella;
che poi che mosse isnella
sfavillando da’ neri occhi desìo,
i pini dondolaronosi piana-
mente gemendo, e in quella
nelle tremule ombrella
tutto fu zirlo, frascheggio, ronzìo.
Riscossi i venti del fugace oblìo
respiraron con fremito sonoro,
ed alta il mar su loro
sollevò la sua voce trionfale (1).
Tra l’albaspina e il bosso
Odo un tinnir leggero
Come d’un riso – E’ vero,
ridente il pettirosso (2).
Gli asfodeli le rosse
Teste movean tra l’onde
Di quelle spighe bionde (3).
L’alba viene: sul poggio alta rosseggia
La selva: e tra le stelle dorme ancora:
croscia la guazza e il bruno suol ne odora;
del timo odora e della santoreggia (4).
Tra le marruche in cui frascheggia il vento
Corre un’acqua che ha nome il Rubicone … (5).
Frinire “è il verbo proprio ad esprimere il cantare della cicala” (6). Zillare è verbo che Pascoli usa per indicare il canto delle rondini, ma anche quello delle cavallette (7). Zirlare è invece “quel suono o fischio chev suol mandare fuori il tordo”. Vepre (pl. Vepri) è il pruno, in lat. Vepres. L’albaspina e lo “Spinobianco (mespilus oxyacantha). Albero o arboscello della famiglia delle rosacee, buono a far macchia o siepe” . Così il “Bosso o Bossolo o Busso. Lat. Buxus . Notissima pianta siepaia, di perpetua verdura” . L’asfodelo, Lat. Asphodelus è una “pianta della famiglia dei gigli” . “Tinnire, risuonare, lat. Tintinnare. Il rumore acuto che fan gli utensili di metallo battuti insieme e anche lo squillare della voce”. Il timo è “pianticella aromatica” , mentre la marruca è il “Pruno da siepe”, e infine la santoreggia è anch’essa pianta aromatica (8).
Già da codesti parchi esempi tratti qua e là, non si può non concordare con quanti affermarono che Pascoli era un vero e proprio naturalista, con un’esperienza non libresca della natura, ma vissuta “de visu” e con eccezionale partecipazione emotiva e “tecnica”, tipica di chi vive in campagna e conosce a fondo i luoghi, le piante e gli animali, e a tutti sa dare il nome e il verso adatti.
Di qui si spiega l’appunto fatto da Pascoli a Leopardi, che parlò d’una “donzelletta” con in mano un “mazzolin di rose e viole”. Di fronte a tanta “incompetenza” naturalistica, il Pascoli “rurale” non poteva sbottare se non nella seguente frase:
“Rose e viole nello stesso mazzolino campestre d’una villanella, mi pare che il Leopardi non le abbia potute vedere”. Perché? Le “viole di marzo”, e le “rose di maggio”. Sistemato Leopardi anti- naturalista, Pascoli lo salva “comunque” come poeta, datosi che, spiegava ancora Giovanni Pascoli, “io sospetto che quelle rose e viole non siano se non un tropo, e non valgono, sibbene speciali, se non a significare una cosa generica” (9).
E Pascoli aveva perfettamente ragione, perché, come ci spiega il Platina nel suo “Trattato sui Tropi”, il tropo fa sì che “o si muti il nome della cosa: ovvero, che quel nome le venga nuovo, o che la voce non sia dirittamente collocata”. Che è proprio il caso di Leopardi, che parla di rose e viole senza però “dirittamente”, ossia “ esattamente” collocarle nel loro “giusto” contesto: insomma, in “natura”, Leopardi si può classificare come “generico” (10).
Ma, come ci spiegano gli esperti della “rettorica”, il tropo ha una funzione “poetica” allettante; infatti, l’uso del tropo comporta diversi vantaggi, per cui “l’uomo fa continuo esercizio d’ingegno” e in più esso “adorna e varia il discorso”. Leopardi è pertanto assolto dai tropi, e anche per via del fatto che aveva memoria “culta” ben allenata, per cui certe espressioni gli venivano alla mente come “reminiscenze” di parole o frasi lette sui poeti, grandi o minimi, del passato, come Fazio ( Bonifacio) degli Uberti, per esempio, il quale scriveva:
Qui gigli e rose con soavi odori
Boschetti di cipressi ed alti pini
Con violette ancor di più colori (11)
Probabilmente anche Fazio degli Uberti avrebbe preso le sue da Pascoli, perché, bene o male, come Leopardi, aveva messo insieme più fiori che nascevano in stagioni diverse: gigli, rose e violette.
Potenza dei tropi!
Note
1) G. Pascoli, “Patuit Dea”, in Poesie varie di Giovanni Pascoli raccolte da Maria, Bologna, Zanichelli, 1914, pp. 30-31.
2) Ivi, Primo Ciclo, II, p. 39.
3) Ivi, Primo Ciclo, III, p. 40.
4) Ivi, Miti. Alba, p. 45, I.
5) Ivi, Il Rubicone, p. 51.
6) G. L. Passerini, Il Vocabolario Pascoliano, Firenze, Sansoni, 1915, p. 168.
7) G. Leucadi, “Tintinni a invisibili porte”, in Rivista Pascoliana, Accademia Pascoliana di San Mauro, Bologna, Pàtron, 1994, n. 6, p. 84.
8) G. L. Passerini, Il Vocabolario Pascoliano, cit., p. 440, 425, 14, 63, 38, 400, 231.
9) G. Pascoli, “Il sabato”, in Prose, Pensieri di varia umanità, Milano, Mondadori, 1952, I, pp. 58-59.
10) Gioseffo Maria Platina, Trattato dell’eloquenza spettante ai tropi, Bologna, Nella Stamperia del Benacci, MDCCXXX [1730], p. 1.
11) Fazio degli Uberti, “Il Dittamondo”, in Parnaso italiano, Venezia, Antonelli, MDCCCXXXIV [1834], Vol. II, Libro III, Cap. XI, p. 183.