Recentemente m’è capitato sottomano un articolo di Ettore Stampini scritto molti anni or sono. In esso Stampini osservava che fu cassata una lezione dell’Unger (“Zur Cicuta des Domitius Marsus”, in Philol., XIV, 1859, p. 217) che tutto sommato potrebbe starci abbastanza bene. Il guasto, diceva Stampini, “si limita alla sola parola concubitum, che si capisce subito essere nata dalla fusione di due parole consecutive con cui terminava il verso; non è di fatto per nulla da meravigliare che in un codice, o per scarsità di spazio o per altro motivo, siasi [= si sia] abbreviato il verbo concumbere con concũb e utrique con utrq, e sia venuto fuori un falso concubitum in luogo di quel concubitum utrique, molto ben veduto dall’Unger”, che scrisse così il distico:
Sed postquam alterius mulier concumbere utrique
Novit, deposuit alter amicitiam.
Dove concumbere utrique significa, diceva Stampini, “imparò a giacere con tutt’e due i fratelli, vale a dire con altra espressione latina utrumque cognovit”. Ossia, in breve, “li conobbe (in senso biblico) ambedue”.
Traducendo:
“Ma dopo che la moglie dell’uno imparò a giacere con tutt’e due i fratelli, l’altro ruppe subito l’amicizia”.
Devo dire che la lezione proposta dall’Unger e ribadita da Stampini, che si lamentò tra l’altro del fatto che molti filologi sono ipercritici e rifiutano le soluzioni più semplici, mi trova concorde ed in forte sintonia. E, a onor del vero, devo altresì riconoscere che la lezione concumbere utrique rende benissimo il concetto, addirittura meglio del mio etiam ( che tuttavia non è poi così malaccio come proposta interpretativa).
Fonte:
E. Stampini, “L’epigramma di Domizio Marso contro Bavio e suo fratello”, in Nel mondo latino. Studi di letteratura e filologia, Torino, Bocca, 1921, p. 311 sgg., e pp. 316-317.