Il Bullying, il bullismo, e le profezie di John Dewey

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Ho scelto il termine inglese bullying, anziché il nostro italianissimo bullismo per una ragione di metodo. Intanto per ragioni di correttezza lessicale. Come faceva notare giudiziosamente una studentessa nella sua tesi di laurea,

 

“Il termine bullismo deriva dalla parola inglese bullying, usato nella letteratura internazionale per indicare il fenomeno delle prepotenze tra pari in un contesto di gruppo. [Esso è stato] coniato dal termine bully, che significa principalmente spaccone” ( E. Menesello). Il secondo motivo per cui userò spesso bullying deriva dal fatto che ho voluto altresì impegnarmi in un giro d’orizzonte per saggiare come il bullismo italiano è visto all’estero. Gli studi comparativi in lingua inglese sul bullying sono parecchi, e molti meritevoli di citazione. Comunque, a quanto ci dicono A. Fonzi et alii:

 

 

“ A noi pare  che, al di là delle differenze metodologiche tra il nostro studio e quelli di altri paesi europei, alcuni tipi di bullismo siano maggiormente tollerate da noi rispetto alle altre culture occidentali” (Trad. mia). A. Fonzi et alii  pongono pertanto l’accento sul fatto che in Italia si sarebbe più permissivi rispetto ad  altre parti d’Europa e del mondo ( ma su questo torneremo). Prima di arrivare ad una qualsivoglia conclusione, osserviamo intanto  che la scuola è maggiormente intrigata con il bullismo perché è senza dubbio il  luogo di massima concentrazione  dei giovani.

 

Se, probabilmente, certuni non fossero a scuola , farebbero i bulli per le strade, in famiglia, o in altri centri di aggregazione sociale. La scuola “patisce” il fenomeno in maniera eclatante perché di lì passano tutti (o quasi). Un altro distinguo. Dopo aver detto che la  forma di bullismo più frequente in Italia è quella “verbale” (insulti, prese in giro e affini), risultano interessanti anche le differenze regionali illustrate da A. Fonzi et alii , per cui si passerebbe, a Torino,  da un bullismo al 34,8% nelle scuole primarie a un 17,9% nelle secondarie; mentre troveremo percentuali molto più elevate a Napoli, con un bullismo (anche in classe)  al 47, 6% nelle scuole primarie, e al 30,6% nelle secondarie. Allora, è evidente che dietro il bullismo nella scuola ci sono ragioni storiche e sociali non indifferenti da tenere nella debita considerazione. Parlare di bullismo in Italia significa anche valutare regionalmente la portata del fenomeno.

 

In questo senso, appongo all’attenzione dei lettori i risultati conseguiti dalla prima indagine nazionale del CENSIS sul bullismo (2008), secondo cui il fenomeno sarebbe così distribuito per aree geografiche in Italia: Nord Ovest 50,8%, Nord Est 48,3, Centro 49,4,%,  Sud e isole 50,4% (CENSIS). Di notevole rilevanza  è poi oggi anche il Cyber-bullismo via Internet. Secondo gli studi di A. Brighi et alii,  in Emilia Romagna, Toscana e Calabria l’ 86% dei giovani non risulterebbe coinvolto in  episodi di bullismo; mentre quello “occasionale” si aggirerebbe intorno al 9%; ed il bullismo “severo” si situerebbe all’1%. (Giornale di Psicologia dello sviluppoJournal of Developmental Psychology).

 

Si fa inoltre osservare che il bullismo non è, assolutamente,  un problema italiano, ma coinvolge tutto il mondo conosciuto. Il problema si presenta in tutte le società a sviluppo avanzato; e infatti un libro come il  The Nature of School Bullying si  presenta come una disamina del bullismo, non soltanto in Italia, ma a livello mondiale. Scorrendo l’indice,  troviamo fenomeni di  bullismo in  Scandinavia, Svezia, Norvegia, Danimarca e Finlandia. Inghilterra, Galles e Irlanda; Francia Spagna, Portogallo, Belgio, Olanda e Germania, Svizzera e Polonia;  Stati Uniti, Australia e Giappone. Pertanto il bullying è un “international problem”,  definito come una “sottocategoria del comportamento aggressivo” (Peter K. Smith & Yohji Morita).

 

Il bullismo, in sé,  ha una manifestazione “esplosiva” a scuola, ma esso è abbondantemente presente anche in altri contesti sociali, come manifestazione di “supremazia” di un gruppo giovanile e non giovanile nei confronti di un altro. Pertanto, ci sono casi di bullismo nelle prigioni, sui posti di lavoro, a casa e in famiglia (Peter K. Smith & Yohji Morita). E. Menesello inoltre osserva che,  “se consideriamo che oltre il 50% del bullismo prende la forma di prepotenza verbale e che proprio tale tipo di prepotenza non è considerato particolarmente grave dagli stessi ragazzi, la drammaticità del fenomeno italiano risulta forse ridimensionata, anche se non per questo meno preoccupante” (E. Menesello).

 

Quali conclusioni?  Il bullismo esiste, e ovviamente va frenato in tutte le sue manifestazioni, leggere o pesanti che siano.  E’ ormai da anni che le scuole sono consapevoli del problema, e che hanno attivato progetti (con risorse che qualche “calunniatore” potrebbe definire “ridicole” rispetto alla bisogna) per frenare il fenomeno lungo tutta la penisola. Quello che però spesso (e molto volentieri)  si va dipanando a livello mediatico è di suggerire “coram populo” ( quatti quatti e zitti zitti)  che il bullismo è un fenomeno soltanto scolastico.  Mentre invece esso si manifesta in molti altri luogo d’incontro, dai cinema alle spiagge, tanto per dirla tutta.

 

Il bullismo non è quindi un fenomeno soltanto  scolastico,  ma un fenomeno sociale: un aspetto dei comportamenti violenti che si registra in certi gruppi di giovani di tutte le società avanzate a tutti i livelli, e non soltanto a scuola. La scuola tutto sommato,  e con i mezzi che ha,  fa la sua parte con dignità; come da anni sta anche fungendo da capro espiatorio, strategicamente coinvolta per scaricarvi sopra responsabilità (anche, e soprattutto) finanziarie, che, au contraire,  stanno da tutt’altre altre parti ( leggi politicians, bureaucrats, et similia).  E pregherei di non affannarsi troppo a voler  dimostrare il contrario, sennò m’ “insusto”. In realtà, la scuola è parte della società, e pertanto si deve discorrere di problemi della Scuola e della Società.

 

John Dewey, nel suo ottimo Dictionary of Education, alla voce Youth, spiegava:

 

“ The development within the young of the attitudes and dispositions necessary to the continuous and progressive life of a society cannot take place by direct conveyance of beliefs, emotions, and knowledge. It takes place through the intermediary of the environment. The School and Society.” (J. Dewey, Dictionary of Education).

 

“Lo sviluppo  nei giovani del modo di comportarsi e delle disposizioni necessarie per una vita continua e progressiva di una società non può avvenire senza il convogliamento diretto di credenze, emozioni e conoscenze. Si svolge per il tramite dell’ambiente. La scuola e la società”.

 

Restando ancora  fermi per un  momento  alla scuola, torniamo adesso sulle parole di A. Fonzi et alii, secondo i quali “alcuni tipi di bullismo siano maggiormente tollerate da noi rispetto alle altre culture occidentali”. E’ evidente che qui entriamo nel campo del “controllo” dei comportamenti dei ragazzi. La parola “controllo” non dovrebbe suscitare eccessivo spavento, anche perché tutti, oggi forse più di ieri, siamo vincolati alle regole sociali. Il sempre più compianto John  Dewey soleva dire al proposito:

 

“Io comincerò, ad ogni modo, con il vecchio problema della libertà individuale e del controllo sociale […] Spesso giova, quando si prendono in esame i problemi dell’educazione, cominciare dimenticando momentaneamente la scuola e pensando ad altre situazioni umane. Considero pacifico per tutti che il buon cittadino medio sia notevolmente soggetto al controllo sociale e che una considerevole parte di questo controllo non sia sentita da lui come una restrizione della libertà personale” (J. Dewey, Esperienza e Educazione).

 

Nella maggior parte dei casi, il docente riesce a mantenere un sufficiente “controllo” della situazione, specialmente se sul territorio la scuola in cui lavora gode di buona stima; però esistono anche i casi limite. Vorrei qui ricordare un fatto remoto relativo a certe situazioni scolastiche negli Stati Uniti, dove in certe scuole di New York il “controllo”, o disciplina che dir si voglia,  non era assicurato in classe dall’insegnante, ma da un poliziotto che teneva  in bella vista una pistola nella fondina. Siccome gli americani hanno patito il fenomeno della violenza nelle scuole (quelle soprattutto a rischio) molto prima di noi in Italia, mi pregio presentare qui un episodio molto significativo,  accaduto a New York nel 1958, e riportato da LIFE:

 

“Lo scioccante suicidio di un preside la settimana scorsa ha drammaticamente colpito l’opinione pubblica newyorchese per via della violenza giovanile nelle strade e nelle scuole. La situazione è precipitata in modo così serio  che recentemente è stata istituito  un Gran Giurì per investigare sulle scuole”.

 

“La  scuola di George Goldfarb, continuava l’articolo,  con 33 anni d’insegnamento alle spalle, è situata nei cosiddetti quartieri periferici di Brooklyn,  ed è composta per il 50%, di gente di colore, un 40% di bianchi e per un 10% di portoricani. Accanto alla sua scuola una ragazzina era stata violentata, e Goldfarb è stato chiamato di fronte al Gran Giurì. Fino a quel momento egli non aveva avuto seri problemi a scuola, ma nel giorno stesso in cui era stato chiamato di fronte al Gran Giurì, erano accaduti altri due nuovi episodi di violenza. Goldfarb aveva raccontato che, dopo il suo incontro con il Gran Giurì, un membro della giuria lo aveva messo sotto accusa e denunciato. Poco dopo fu trovato suicida nel suo appartamento. Il giorno prima aveva chiesto che un poliziotto fosse assegnato alla sua scuola”.

 

Dopo il suicidio di Goldfarb, si innescarono, come prevedibile, violente polemiche tra il Sovrintendente William Jansen  e  il giudice Samuel Leibowitz , che aveva chiamato Goldfarb  a testimoniare presso il Gran Giurì :

 

“Authorities at odds over schools are Superintendent William Jansen and judge Samuel Leibowitz who empaneled grand jury. Jensen complained judge called him ‘arrogant, pompous, swell-heated” and ‘bastard.’ Judge denied epithets but said the schools were a ‘horrible, miserable mess’” ( LIFE, School Problem, and A Suicide).

 

Ossia: “Le Autorità in disaccordo sulle scuole sono il Sovrintendente William Jansen e il giudice Samuel Leibowitz,  che aveva istituito il Gran Giurì. Jensen si è scagliato contro il  giudice, definendolo ‘arrogante, pomposo, pallone gonfiato’ e anche  ‘bastardo’. Il giudice ha rigettato gli epiteti, aggiungendo che le scuole erano  ‘in un orribile, nonché miserabile stato di caos assoluto’

 

Anche se il trend della presenza di poliziotti nel corso delle lezioni sembra oggi in diminuzione nelle scuole americane, il problema persiste, e la bibliografia sull’argomento è davvero imponente (link: http://journals.sagepub.com/doi/abs/10.1350/ijps.2005.7.4.264).

 

Da noi non s’è mai arrivati a tanto; però l’episodio americano mostra con evidente plasticità come siano profondamente mutati i tempi. In Italia è forse ancora possibile  implementare a scuola maggiori controlli, fermo restando che esistono realtà, spesso multietniche, che definire “difficili” risulta un eufemismo, e che esse sono il risultato di situazioni socio-economiche tali che a cavar le castagne dal fuoco toccherebbe ad altri, non alla scuola. La scuola italiana lavora avendo presente le complicazioni derivanti dalla compresenza, spesso massiccia, di bambini e ragazzi provenienti da culture molto diverse tra di loro, e fa l’ unica cosa che è in suo potere di fare: puntare sulla convivenza pacifica.

 

Dewey era morto nel 1952, un po’ prima che accadessero i fatti che spinsero al suicidio il preside Goldfarb. Però Dewey conosceva il problema, tanto da scrivere parole memorabili e  degne della massima considerazione:

 

“In un mondo che in così vasta misura si è impegnato in una corsa pazza e spesso brutalmente dura verso le conquiste materiali mediante una spietata concorrenza, è compito della scuola  di compiere uno sforzo incessante e intelligentemente organizzato per sviluppare al di sopra di ogni altra cosa la volontà di cooperazione […] Probabilmente la scusa migliore che si possa addurre è che le scuole e gli educatori sono stati colti alla sprovvista. Chi potrebbe aver sognato che il demone della paura, del sospetto, del pregiudizio e dell’odio si sarebbe impadronito degli spiriti degli uomini del mondo nel modo che ha fatto? […] A meno che le scuole del mondo si impegnino in uno sforzo comune per ricostruire lo spirito di comprensione comune […] le scuole stesse verranno probabilmente sommerse dal ritorno generale di barbarie che saranno certamente il risultato delle tendenze attuali” [Corsivi e sottolineature  miei] ( J. Dewey, L’Educazione di oggi).

 

E parole più non ci appulcro.

 

 

Fonti:

E. Menesello, “Il fenomeno del bullismo nella realtà scolastica. Un’indagine nella Provincia di Venezia”. Tesi di laurea discussa all’ Università di Padova, Facoltà di scienze Statistiche, A. A. 2009-2010, p. 5 e nota 1.

A. Fonzi et alii, “Italy”, in The Nature of School Bullying: A Cross-National Perspective, London & New York, Routledge, 1999, pp. 146-147, p. 149.

“Il bullismo cresce, ma non è colpa della Scuola”, in CENSIS, Prima indagine nazionale sul bullismo, Roma, 2008, p. 10.

A. Brighi et alii, “Victimization in Traditional Bulliyng and Cyberbullying Among Italian Preadolescents”, in Giornale di Psicologia dello sviluppoJournal of Developmental Psychology, Giunti, ottobre 2011, n. 100, p. 108.

Peter K. Smith & Yohji Morita, “Introduction”, in  The Nature of School Bullying …, p. 1.

J. Dewey, Esperienza e Educazione, Firenze, La Nuova Italia, 1973, p. 37.

“School Problem, and A Suicide”, in LIFE, February 10,  1958, Vol. 44, N. 6,  p. 86 e p. 88.

J. Dewey, Dictionary of Education, New York, Philosophical Library, 1959, p. 149.

J. Dewey, L’Educazione di oggi, Firenze, La Nuova Italia, 1950, p. 381.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.