Dante e Giotto. Binomio perfetto!

strumenti dei pittori

Cennino Cennini ebbe a scrivere che “Giotto rimutò l’arte del dipingere […] e ridusse al moderno: ed ebbe l’arte più compiuta ch’avessi mai più nessuno”. Con queste parole Cennino Cennini sintetizzava in poche righe il senso e il significato dell’arte di Giotto: profondo e immediato realismo.

Allorché egli afferma che l’arte di Giotto fu ridotta “al moderno”, intende appunto sottolineare il “realismo” giottesco, che egli evidentemente contrappone alla pittura estremamente stilizzata di Cimabue. Ciò è particolarmente visibile nel Crocifisso di Santa Maria Novella: il Cristo è effettivamente umanizzato; e il realismo della scena è accentuato dal sangue che sgorga vivo dalle mani del Cristo trafitto, il cui volto si compone in un’espressione di profondissima mestizia.

Viene spontaneo chiedersi da dove Giotto avesse tratto tanta capacità di “verista”, e in questo senso è assai probabile che egli avesse subito l’influsso di Arnolfo di Cambio, che tra le altre cose era a Roma proprio nel periodo in cui Giotto ebbe a lavorare in quella città. E’ indubbio che l’arte ferma e robusta di Arnolfo avesse influenzato in una misura decisiva colui che, come disse Dante, ebbe a togliere la palma del migliore a Cimabue. Ma oltre al realismo, ciò che caratterizza l’arte di Giotto era l’estrema capacità di sintesi; la sua “narratività” non era affatto sovrabbondante. Le scene giottesche sono di una essenzialità narrativo-sintattica di eccezionale spessore.

Nel famosissimo “Arresto di Cristo” tutto è ridotto all’essenzialità: nessuna concessione a qualsivoglia digressione che possa distrarre chi guarda la scena principe. Il bacio di Giuda avvolge il Cristo senza lasciargli scampo, e pare chiuderlo in un abbraccio mortale, avviluppandolo quasi nelle spire del suo mantello. La stessa incredibile capacità veristica ed essenziale la si nota, sempre a Padova, nella raffigurazione realisticamente resa dei “Vizi”, dove la capacita di una fortissima penetrazione psicologica si accompagna a una figurazione plastica dei personaggi estremamente veritiera.

In conclusione, Giotto superò Cimabue perché riuscì a umanizzare le sue figure d’uomini e donne sofferenti: non v’era più nulla in Giotto della ieratica “assenza” delle figure bizantine. Il realismo nell’arte non poteva irrompere che con il “cenniniano” Giotto, uomo moderno, cui Cimabue, che credeva “tener lo campo” nella pittura, dovette cedere.

Ormai la lotta tra i due Giganti del Medioevo s’era conclusa; a Cimabue restava una fama antica e ben guadagnata, ma il vero vincitore fu Giotto: era lui che, ormai, “teneva il grido nella pittura”:

“ Credette Cimabue ne la pittura/ tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,/ sì che la fama di colui è scura” [ Dante, “Commedia”, “Purgatorio”, XI].

Nota

Per le considerazioni storico-stilistiche sopra indicate, sono debitore all’ancor ottimo volume di di P. Toesca, “La pittura fiorentina del Trecento”, Verona, 1929.

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.