L’ impeto religioso-linguistico di Iacopone da Todi

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La religiosità iacoponica possiede una terribilità che impressionò e continua a turbare anche il lettore moderno. Iacopone è in grado di farsi capire anche attraverso i secoli e nonostante una lingua antica, ibrida tra il todino  e l’umbro. Questo straordinario poeta religioso ci ha lasciato immagini potentissime del suo dio terribile, un dio che scuote letteralmente il poeta nel profondo,  mettendogli addosso un  terrore sacro, una devastante “paiura”, tanto da non trovare un rifugio che lo salvi dall’ira divina, e perciò invoca la terra di nasconderlo, sotterrandolo:

 

Chi è questo gran scire

rege de grann’altura?

So’ terra vorria gire,

tal me mette paiura.

Ove porrìa fugire

Da la sua faccia dura?

Terra, fa copretura

Ch’e’ no ‘l veia adirato.

 

“Chi è questo Sapere Assoluto,/ Altissimo Sovrano?/ Vorrei nascondermi nelle viscere della terra,/tanto è il terrore che m’incute. Dove, dove potrei fuggire per celarmi  dal suo volto duro? Terra, ti prego, coprimi/ perché non lo veda adirato”.

 

Iacopone invoca da Dio la morte, prima che egli possa ancora offenderlo con la sua vita peccaminosa,

 

Signor, dàme la morte

‘nante ch’e’ plu t’afenda

E lo cor meo sse fenda

Ch’en mal perseveranno.

 

“Signore, mandami la morte/ prima che io possa offenderti ancora di più/ E il mio cuore si tagli a mezzo/ poiché nel male abbiamo perseverato”. Al solito, la lingua iacoponica è aspra, dura e addirittura “cruenta”: il suo  cuore si deve “fendere”, tagliare quasi a metà come colpito da un colpo di spada, prima che egli possa ancora offendere Dio.

 

Iacopone fu anche un dotto legista, e, come gran conoscitore della “Rettorica”,  invita se stesso e tutti alla brevità nel parlare, perché i discorsi lunghi annoiano. E, in breve, il potente poeta todino incita gli uomini alla prudenza, alla fortezza, e alla carità; altrimenti, minaccia,  finirete “en caldo”  (all’ inferno),  dove, cadendovi dentro,  “farì granne fracasso” (farete un gran fracasso).

 

Omo chi vòl parlare,

emprima de’ pensare

se quello che vòl dire

è utele a odire;

ché la longa materia

sòl generar fastidia,

el longo abriviare

sóle l’om dilettare.

 

“L’uomo che vuol parlare/deve prima pensare/ se quel che ha da dire/ è utile a udirsi,/ perché i discorsi lunghi/ingenerano fastidio/mentre la brevità/suole dilettare gli uomini”.

 

E con questo giudizioso consiglio dell’avvocato Iacopone, sapiente conoscitore non soltanto del Diritto, ma anche di poesia,  il quale abbandonò tutto e tutti, aborrendo ab imis le “vanità del mondo”, concludiamo questo brevissimo assaggio della poesia del poeta todino, non senza però riportare qualche esempio della “potenza” del lessico iacoponico.

 

Iacopone non “guarda”, così, semplicemente, alle cose del mondo, ma le “aguata”, le “scruta” nel profondo, quasi tendendo loro un vero e proprio “agguato”, nel senso moderno del termine. Il peccatore è non soltanto “umiliato”, ma “anichilato” (annichilito, ridotto cioè a un “nulla”), e pertanto “desformato” (reso deforme) dal peccato.

 

La lingua iacoponica è todina e umbra, ma è anche del tutto “personale”, tanto che E. Parodi sottolineò che il Canzoniere di Iacopone è sì  “scritto, si dice, in volgare umbro”, ma la realtà è che “Iacopone inonda di vocaboli dotti […], da lui foggiati, la propria poesia”, facendone un poeta religioso d’ “impeto”.

 

Iacopone andava dunque “oltre” i normali canoni linguistici del suo tempo: ciò che a lui interessava era sempre e soltanto cantare l’amore divino, che “trascende” ogni possibilità di linguaggio. E di ciò Iacopone, il dotto, il legista Iacopone ne era conscio, tanto da cantare:

 

Sopr’onne lengua Amore,

Bontà senza figura,

lume for de mesura,

resplende en lo meo core.

 

Sopra ogni lingua (conosciuta) c’è Amore.

Bontà infinita senza volto

Immensa luce

Che sempre risplende nel mio cuore.

 

Dio sta quindi “Sopr’onne lengua”: è cioè “inesprimibile”. Il che spiega la straordinaria creatività linguistica dell’avvocato Iacopone, alla costante ricerca di un “excessus” della lingua che potesse offrire  almeno un  barlume della divinità, definita

 

Amativa luce.

 

Una definizione che, credo, costituisca un “unicum”, un autentico e regale “apax” nella storia della lingua poetica religiosa di tutti i tempi.

 

Fonti:

 

Per i testi iacoponici, Vedi Iacopone da Todi, Laude, a cura di F. Mancini, Bari, Laterza, 1980,  p. 84, 190,  294.

 

Per la lingua (lessico),  G. Ferri, Prospetto grammaticale e lessico delle poesie di Iacopone da Todi, Perugia, 1910, p. 18, 51, 52, 72, 119.

 

Per la definizione di poeta d’ “impeto”, Vedi E. Parodi, “Il ‘giullare di Dio’”, in Poeti antichi e moderni, Firenze, Sansoni, 1923, p. 72,  pp. 137-138, 140.

 

 

 

 

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.