L’inafferrabile Rismo di Guido Cavalcanti

Ri-pubblico in questa sede un recente saggio già apparso anche su Accademia Edu. con il titolo L’(ir-) ridente “rismo” di Guido Cavalcanti. Esso  è parte di un più ampio lavoro che mi riprometto di pubblicare a breve.

 

Arismo

 

Prima  della rottura definitiva, Dante e Cavalcanti erano stati amici per la pelle, come si suol dire. Soliti adunarsi nell’elitario Club degli Stilnovisti, essi guardavano dall’alto in basso al populace dei poeti che, ben al di sotto, s’affannava a rimar d’amore (e d’altre supposte vertù). Dante, nel De Vulgari Eloquentia (I, 18, 3) poneva tra i salvati in primis se stesso, in secundis Guido Cavalcanti, “il primo amico” in assoluto; e poi via via alii, ma soltanto i poeti fiorentini, tra cui  Lapo Gianni, a formare la famosa triade. Tutto il resto della torma poetante fu  designato con espressione spietata : “ottusi e intronati nel loro turpiloquio” (1).

E,  “prèncipe” degli ottusi,  scaturiva essere Guittone d’Arezzo.

Con il suo abituale tono profetizzante, Dante inveì duramente contro Guittone d’Arezzo, bollando a fuoco l’uomo e la di lui poesia “d’amore” e di vertù (dubbie, essendo colui ascritto ai “Frati Gaudenti”) e, infine, i di lui innumeri estimatori, fissati  in sempiterno fra i “seguaci dell’ignoranza”:

“Cessino, i seguaci dell’ignoranza d’esaltare Guittone d’Arezzo e certi altri che, nei vocaboli e nei loro costrutti, non perderono il vezzo di imitare la plebe” (2).

Quei “certi altri”  erano le turbe de’ seguaci di Guittone, tra i quali  spiccava Onesto Bolognese, il quale s’era  sperticato in lodi altissime a Fra’ Guittone, gratificandolo,  affettuosamente, di “Caro meo frate”; indi,  il suddetto Onesto mostrava  ardente il “disìo” di seguirne le orme, nonché il di lui “maggior parlar, ch’è manierato/ a ciascun che senno aver desìa” (3).

Purtroppo per Onesto Bolognese, devotissimo follower di Fra Guittone, Dante aveva dalla  parte sua un personaggio tutt’altro che mansueto, il  “primo amico” per antonomasia: Guido Cavalcanti, il quale,  nei confronti  del “maggior parlar” di Guittone, nonché sulla di lui capacità di far sillogismi, nutriva severissimi dubbi. Sembra accertato che, in fatto di sillogismi (malfatti), Cavalcanti mal digerisse essenzialmente quelli ritenuti “pseudoscientifici”, cioè quelli religiosi (4). Cavalcanti, dunque, alla stregua del più giovane amico e sodale, non mostrò estimazione alcuna per  fra’ Guittone, facendosene beffe  in un sonetto definito da Alfredo Schiaffini molto, anzi,  “esageratamente”  ermetico (5): l’ultra-famoso nonché super-discusso Da più a uno face un sollegismo (6).

Nonostante le  stimolanti e interessantissime ipotesi ventilate, ancor oggi il più celebre sonetto anti-guittoniano della storia della letteratura italiana continua a permanere compulsata  materia d’innumerabili studii. Il pomo della discordia è costituito soprattutto dal fantomatico “arismo” cavalcantiano , in lotta asperrima con rismo (7),  sui quali si sono affilate la armi le più sofisticate della critica . Cominciamo intanto col dare la lezione attestata nell’edizione di G. Contini :

Da più a uno face un sollegismo:

in maggiore e in minor mezzo si pone,

che pruova necessario sanza rismo;

da ciò ti parti forse di ragione?

 

Nel profferer, che cade ’n barbarismo,

difetto di saver ti dà cagione;

e come far poteresti un sofismo

per silabate carte, fra Guittone?

 

Per te non fu giammai una figura;

non fòri ha’ posto in tuo un argomento;

induri quanto più disci; e pon’ cura,

 

ché ’ntes’ ho che compon’ d’insegnamento

volume: e fòr principio ha da natura.

Fa’ ch’om non rida il tuo proponimento!

Riassumendo celeriter lo status quaestionis, si va da “rismo” inteso come “veste poetica” (Contini) a un  “arismo” su cui discuteremo subitamente qui di seguito.

Senza azzardare (per il momento) estravaganti categorie di pensiero, vediamo  se l’ ipotesi di arismo possiede una qualche consistenza. Narra la critica (quasi) tutta che la divinatio di sanz’arismo, in luogo dell’attestato rismo (sanza rismo), fu dovuta a  Guido Favati. Prima di proseguire, si deve tuttavia sottolineare  un fatto cruciale  di tutta questa vicenda dell’ “inafferrabile” arismo di Cavalcanti, e cioè che nessun codice conosciuto dà la lezione arismo: tutti i manoscritti, per converso, portano  “rismo” (sanza rismo).

E veniamo ora al busillis.

Nel 1950, su Studi Petrarcheschi, apparve un intervento  a firma di Guido Favati, il quale osservava come Cavalcanti avesse introdotto  “addirittura un àpax: rismo o arismo ( del quale, scriveva il Favati, proponiamo come etimologia arithmós, ‘operazione matematica, calcolo’, per l’analogia che lo lega ad arismetica, arismetra ecc); onde sanz’arismo significherebbe ‘senza bisogno di calcolo, di riprova’” (8). Ora, la paternità della divinatio di “arismo” è stata data (quasi) da tutti al Favati:

“Qui Guido Favati aveva preferito scrivere sanz’arismo, rinviando per l’interpretazione di tale espressione (‘senza bisogno di calcolo o riprova’) a un suo precedente saggio cavalcantiano, La medesima lezione è nel testo del De Robertis” (9).

“La forma sanza rismo è quella attestata nei due codici costituenti la tradizione del sonetto, la Raccolta Bartoliniana e il Chigiano L VIII 305, e in tutte le edizioni precedenti quella di Favati nel 1957, che legge invece per la prima volta  [corsivo mio] sanz’arismo”, accolto poi da De Robertis nell’edizione delle Rime nel 1986 (10) .

In realtà non fu Favati che lesse “per la prima volta” sanz’arismo: la primogenitura della divinatio di arismo non  va attribuita a Favati ma a Flaminio Pellegrini. La cosa fu relegata alla nota 62 da Marian Papahagi nel 1993, il quale osservava che G. Favati aveva divinato arismo dando la spiegazione “ ‘senza bisogno di calcolo, di riprova’, senza però citare Pellegrini [ corsivo mio] che aveva già indicato la stessa forma e la stessa etimologia”  (11). Più recentemente (2001) Giovannella Desideri notava (tra parentesi) che Pellegrini aveva  “formulato” l’ipotesi “già nel lontano 1895” (12)

Diffondendoci in modo più disteso. Molto prima  di Favati, sul  Giornale Storico della Letteratura Italiana apparve un articolo di Flaminio Pellegrini, il quale, recensendo un lavoro di Giulio Salvadori  (13), non soltanto riportava il testo di Da Uno a più face un sollegismo, ma si proponeva anche di darne “miglior lezione”, suggerendo per la prima volta in assoluto  la lezione “arismo”:

Da più a uno face un syllogismo:

In maggiore e in minor mezzo si pone,

Che pruova necessario, sanz’ arismo.

Da ciò ti parti forse di ragione?

 

Nel profferer, che cad ’en barbarismo,

Difecto di saver ti dà cagione.

E come far poteresti un sofismo

Per silabate carte, fra Guittone?

 

Per te non fu giammai una figura;

Non fôri à posto in tuo un argomento;

Induri quanto più disci; e pon’ cura,

 

Ché ’nteso ò che compon’ d’insegnamento

Volume: e fòr principio è d[e] natura.

Fa[r] ch’on non rida il tuo proponimento!

La “miglior lezione” proposta da Flaminio Pellegrini  era basata sul manoscritto della Biblioteca Universitaria di Bologna e sul chigiano L VIII 305. Ma soffermiamoci adesso su “arismo”,  e sulla parafrasi  dello stesso studioso:

“Sappi, dice l’autore, che il sillogismo ha un tal congegno che conclude (face, cioè opera, giova, ha effetto) dall’universale al particolare, in grazia della collocazione di un termine medio tra il maggiore e minore. Questo termine medio è come la chiave onde, senza bisogno di calcolo matematico, scaturisce la necessità della cosa affermata. Sei forse ragionevole partendoti da ciò?” (14).

Non si può fare a meno di osservare che la lezione arismo sembrerebbe  preferibile a quella di rismo. Dall’analisi  di Pellegrini è emerso che tutta la prima strofa sonetto di Cavalcanti è incentrata sul sillogismo aristotelico, fortemente connesso, storicamente, agli sviluppi della matematica:

“Nella scuola pitagorica, scrive Silvio Maracchia, […]  il numero appare come la vera sostanza di ogni cosa e l’universo di conseguenza appare costruito in forma razionale e intellegibile, da cui il termine cosmo (kósmos) cioè ‘ordine, disciplina’ per indicare l’universo, e ‘aritmo’ (arithmós) etimologicamente legato ad un buon ordine ( da cui ritmo, euritmia) per indicare il numero sino ad assumere nell’Accademia la caratteristica di elemento insostituibile per giungere alla vera conoscenza […] Quella sua caratteristica di scienza della verità, continua  Maracchia,  pur presente nonostante tutto nello stesso Platone colpisce Aristotele (384-322) attraverso la struttura logica dei suoi ragionamenti. La matematica, cioè, fornisce ad Aristotele un esempio di rigore, di ragionamento corretto. Nello stesso tempo la matematica con Aristotele acquista consapevolezza di questa correttezza, poiché l’analisi del filosofo chiarisce quali sono appunto i meccanismi della deduzione, quali sono e devono essere i princìpi su cui essa si basa ed infine quali sono i pericoli dei ragionamenti apparentemente corretti ma errati nella sostanza”. “La matematica, postillò ancora S. Maracchia, venne ad assumere così un ufficio di argano verso la verità […] aiuto indispensabile per il dialettico, intesa come scienza atta a maturare la mente e prepararla a slanci più impegnativi” (15).

Ora, poiché il sillogismo, strumento prìncipe di Aristotele, era avvinto in maniera consustanziale  all’ arithmós, al “buon ordine” della matematica, “scienza della verità”,  parrebbe (molto) razionale accettare come un dato altamente probabile che Cavalcanti, dopo aver dato descrizione dello schema rigoroso del sillogismo, richiamasse, quasi a cascata, e per  riflesso automatico,  il concetto di “calcolo”, asserendo che non c’era bisogno di aggiungere altro “calcolo” (sillogistico) alla conclusione, o , per dirla con il Pellegrini, “senza bisogno di [ulteriore] calcolo matematico”. Si potrebbe eccepire sul fatto che probabile è molto diverso da provabile; ma, insomma, l’ “arismo” divinato da Flaminio Pellegrini rinvia, intanto,  al calco pressoché perfetto di “senza arismetrica”, espressione usata  dal Boccaccio nei confronti di Dante, definito “loico” espertissimo e gran conoscitore dell’ “arismetrica”:

“Dalla sua [di Dante] puerizia nella patria si diede agli studj liberali, e in quelli maravigliosamente s’avanzò; perciocché oltre alla prima arte, fu, secondoché appresso si dirà, maraviglioso loico, e seppe retorica siccome nelle sue opere appare assai bene: e perciò nella presente opera appare lui essere stato astrolago, e quello essere non si può senza arismetrica e geometria” (16).  Gaetano Milanesi, nel citato testo, a commento del termine boccacciano, annotò:

“Il ‘theta’ la pronunzia lo fa apparire un sibilo [cioè, una sibilante]. Arithmòs, cioè numero, ha prodotto risma. Un Arismo, si disse  una risma; un numero di fogli.”

In seconda battuta,  si potrebbe anche arguire con ottime ragioni  che Cavalcanti , dopo la definizione del sillogismo, intendesse significare che la conclusione del “necessario” era chiara,  senza bisogno di “enumerare” (o dell’enumerazione di)  ulteriori  ragioni: “Computare: calculum ponere seu rationem. Facere calculum. Ducere rationem. Dare calculum, rationem”, diceva Simone Pelagronio  (17). “Revocare ad calculos id est ratiocinari”, confermava Stephano Doleto (18). Per cui Cavalcanti,  dicendo “sanza arismo”, avrebbe espresso l’inessenziatà di “revocare ad calculum” o di “ratiocinari” ulteriormente, data la perfezione assoluta della conclusione del sillogismo.

La traslitterazione in volgare di espressioni latine fu tra l’altro tipica dei poeti “avanti” lo Stilnovo, ma coevi di Cavalcanti, per cui troviamo esempi consimili in più fonti; mentre infatti per i poeti siciliani, bolognesi e lucchesi il tradurre frasi latine in volgare fu un fatto sporadico, per “Guittone e soprattutto per i fiorentini”, spiegava Maria Corti, diventava “un modello di linguaggio poetico” (19).

Infine, è doveroso riflettere sul fatto, fondamentale, che soltanto “arismo” sembrerebbe pertinente “di ragione” al campo semantico del calcolo  sillogistico, mentre “rismo” parrebbe convergere di  più verso quello della poesia. E. Cecchini,  preferendo arismo,  osserva che “il linguaggio  usato qui dal Cavalcanti punta […]  quasi esclusivamente in direzione di una disciplina, la dialettica” (20).

Ora, poiché tutta la prima quartina del sonetto di Cavalcanti si svolge intorno al sillogismo,  è evidente che  il lessico è di necessità  organico al testo poetico. Nel discorso, e specialmente nel discorso specialistico ( nel nostro caso logico-filosofico), tutto si tiene, il contenuto come la forma del contenuto.

Ma l’eterno problema è  di stabilire quale dei due termini avesse avuto effettivamente in mente  Cavalcanti. Ora, poiché si è stabilito che il segno generale di Da più a uno face un  sollegismo è di carattere logico-filosofico, il lessico si dovrebbe porre in modo conseguente e congruente con l’intero sistema argomentativo di riferimento. Il lessico, secondo Sorin Stati, anche se in apparenza non pare collegato alla sintassi,  costituisce al contrario un elemento fondante della tenuta logico-sintattica di un testo; e  in forza di ciò esso ne rafforza enormemente la “coerenza” (21).

In questo senso, con Cavalcanti abbiamo a che fare con un filosofo a tutto tondo, attento quanto mai ai dettami della grammatica e delle sue leggi inappellabili, la cui fama di loico era universalmente riconosciuta, e al quale, addirittura, si riconduceva la stesura di una grammatica, dove avrebbe discusso “de eloquentia sui seculi [sic]” (22). Ora, una delle massime grammaticali era la seguente, radicata nei De modis significandi:

“Grammatica circa sermonem considerat congruum et incongruum, ut congruum eligat et incongruum fugiat; logica vero circa sermonem considerat verum et falsum, ut verum eligat et falsum fugiat” (23) .

E ancora Antonio Scayno Salodiensi , diffondendosi In Organum Aristotelis, sottolineava come nella “Grammatica, et Ars Dicendi, loquendi recte et scribendi” si dovesse considerare di altissima importanza “quid congruum, quidve incongruum sit in sermone” (24).

In forza di codeste “leggi”, si può ragionevolmente inferire  che Cavalcanti, dopo aver dato la norma fondamentale del sillogismo,  riguardo al “circa sermonem”, scartasse l’ “incongruum” (rismo) per  il “congruum” (arismo).

Se torniamo all’enunciato iniziale del Cavalcanti,

Da più a uno face un sollegismo:

in maggiore e in minor mezzo si pone,

che pruova necessario,

l’emistichio successivo,  “sanza arismo”, si connette per specifica e fortissima coordinazione concettuale  alla struttura del sillogismo; e parrebbe, infine,  che soltanto “arismo” si possa combinare in modo consequenziale e coerente all’enunciato precedente, offrendo, per così dire, una maggiore stabilità logica al testo.

Una logica che ci attesta, anche, e  senza ombra di dubbio che, effettivamente, il sillogismo è un calcolo, donde si scivola automaticamente verso una conclusione assolutamente scontata.  Dal “medio” si ricava il “necessario”; non c’è altro “calcolo” (sillogistico) da fare:

“Syllogismus perfectus est, qui nullius indiget, praeter ea quae sumpta sunt, ut appareat necessarius”(25).

Finora abbiamo dato per plausibile  la lezione congetturale “arismo”, con la conseguente spiegazione di “calcolo matematico”. Ma le cose stanno davvero in questo modo? “Nella scienza, scrive Enzo Melandri, a differenza del linguaggio ordinario, non ha senso il significato di un termine preso isolatamente […] Per quel che riguarda la scienza, è chiaro che il significato dei termini si ricava inserendo questi negli enunciati”  (26).

Concordiamo.

Ma il problema di base (e di fondo) nell’analisi di Da più a uno face un sollegismo è che “arismo” non c’è in nessuno degli “enunciati” dei codici fino a ora noti: l’unico a essere chiaramente enunciato è “rismo”. Pertanto, per dirla ancora con Melandri, anche se le strade della ricerca sono sempre aperte, dobbiamo confrontarci, almeno per il momento, con “il dato di fatto concreto”, e con “il primato dell’attuale sul potenziale” (27). E’ con il dispettoso “rismo” di tutti i codici che dobbiamo fare i conti. Quindi, sembrerebbe giocoforza tenere per ferma la lezione data da Contini (sanza rismo)  nell’edizione dei Poeti del Duecento.

Se volessimo proprio statuire un qualcosa  che abbia a che fare con il calcolo matematico, e quindi con i numeri, non ci sarebbe bisogno alcuno d’ andare a scomodare un fantomatico arismo, di cui potremmo dire, al pari dell’Araba Fenice, “che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa”. Rismo è più che sufficiente alla bisogna. Quando Cavalcanti  fu posto all’abbaco, e ai primi rudimenti della matematica, c’è da scommettere che gli passò tra le mani, lui giovincello, e, più tardi, lui nobile ma d’una illustre e industre famiglia di “mercatanti”, il Carmen de algorismo di Alexandre de Villedieu , o quello del Sacrobosco (l’ Algorismus vulgaris).  Il Carmen de algorismo del Villedieu così principiava:

Haec algorismus ars praesens dicitur; in qua

Talibus Indorum  fruimur bis quinque figuris.

0 9 8 7 6 5 4 3 2 1

Primaque significat unum: duo vero secunda:

Tertia significat tria: sic procede sinistra

Donec ad extremam venias, quae cifra vocatur …

In nota si dice:

“Haec praesens ars dicitur algorismus ab Algore rege ejus inventore,  vel dicitur ab algos quod est ars, et rodos quod est numerus; quae est ars numerorum vel numerandi, ad quam artem sciendum inveniebantur apud Indos bis quinque (id est decem) figurae. Comment. Thomae de Novo Mercatu. MS. Bib. Reg. Mus. Brit 12 E. 1”  (28). L’etimologia, chiosa Nadia Ambrosetti, è tuttavia  falsa, ma tant’è che così si credeva a quei tempi:

“Il termine, come si è detto, deriva dal nome di al-Khawarizmi , ma ad esso viene attribuita unanimemente da questi autori la consueta falsa etimologia: Algus (nome dell’autore, indicato come re o filosofo) e rithmus o rismus (numero). I principali e più famosi autori, a partire  dal XIII secolo, furono Alexandre de Villedieu (Alexander de Villa Dei), John of Halifax (noto con il nome latinizzato di Sacrobosco ), Jordanus Nemorarius, Johannes de Lineriis e via via molti altri” (29). Vi fu, proprio ai tempi di Cavalcanti e in special modo in ambiente mercantile, aspra disputa tra  “abacisti” e “algoritmisti”. Nel 1299, un anno prima della dipartita di Cavalcanti da questa valle di lagrime, “la controversia sarebbe culminata a Firenze (quasi cento anni dopo il Liber Abaci di Fibonacci ) con l’emanazione dello Statuto dell’Arte del Cambio del 1299 con cui le autorità vietarono di utilizzare i numeri arabi per tenere la contabilità, imponendo che i numeri fossero scritti con i tradizionali numerali romani”  (30).

V’è un punto dirimente per il quale val la pena di soffermarsi ancora sull’algorismus; e cioè che molti anni orsono Bruno Migliorini, rinviando agli studi di Giovan Battista Pellegrini del 1965  ebbe a notare quanto segue:

“Il passaggio da algorismo (lat. med. Alchorismus) ad algoritmo è quasi certamente dovuto a raccostamento  al greco arithmòs. G. B. Pellegrini (in L’Occidente e l’Islam, Spoleto, 1965, p. 741) trova che ‘un’ eco di tale parola  (algorismo) si nota anche nel rismo del son.  di G. Cavalcanti Da più a uno face un sollegismo  (Il Favati, St. Petr., III, 1950, p. 135 preferiva correggere sanz’arismo ricorrendo al greco arithmòs)”.

Nel saggio di G.B. Pellegrini sopra citato  il critico osservava infatti che “un tempo era molto diffuso anche algorismo, algoritmo, ‘procedimento di calcolo fondato sulle cifre arabe’, ‘calcolo’ che attraverso il lat. medievale alchorismus ( ad es. Gherardo da Cremona Liber alchorismi  de iebra et almucabala …)  ‘cifra che esprime una quantità’, risale al nome del matematico arabo Al-Huwarizmi (cioè nativo di Hwarizm regione dell’Asia); un’eco di tale parola si nota anche in rismo del Cavalcanti” (31).

Alla luce di siffatte  ricognizioni pare cadute in oblio, viene il dubbio, oltremodo legittimo, che  non vi fosse bisogno alcuno di ricorrere a un presunto arismo per deporre a favore d’ un (altrettanto presunto) “calcolo matematico” occultamente celato nel rismo cavalcantiano . Jacopo da Firenze,  scrivendo il suo  Tractatus Algorismi nel sia pur tardo 1307,  chiosava:

“E sapiate che noi il chiamiamo algorismus perchè questa scientia (scienza) fu principalmente fatta in Arabia, e quelli che la trovoe (trovò) fu  simigliantemente arabo. E l’arte è deta (detto) in lingua arabia algo e ’l numero è deto rismus (risimus) e percioe (perciò) è deto algorismus” (32).

Rebus sic stantibus, cosa avrebbe ordunque potuto fare  Cavalcanti? O prendere di sana pianta il corrente  “rismus” di  cui parlava il nostro ottimo Jacopo da Firenze; oppure, poiché il verso non “supporta” “algorismo” nella sua interezza, altro non “facere”  che un’ “apheresis” metri causa, troncando di netto la prima parte della parola, e  riducendola al più secco “rismo”, quod est numerus, ci si spiega. Quindi, il “sanza rismo”, derivante o dalla semplice presa in carico di “rismus”  o dal “taglio” dell’ algo-rismus, dà il medesimo risultato di arismo:  non v’è cioè bisogno di aggiungere altro numero o calcolo matematico alla perfezione del  risultato “necessario” , il qual “risultato”  è “pruovato” così com’è.

 

Rismo e Rima

 

Riguardo all’interpretazione continiana di “rismo”, Alberto Gessani  annotava: “Contini … legge sanza rismo, secondo la tradizione. Ma si rende conto che il senso è allora assai dubbio, perché ‘rismo’ dovrebbe significare ‘ritmo’, ‘rima’ ( ‘risme’ per ‘rime’, infatti, in Jacopone da Todi: cfr. De Robertis, ivi), ma non si capisce perché Cavalcanti debba precisare che non c’è bisogno di veste poetica (così Contini stesso e Ciccuto)” (33).

Contini si trovò in effetti tra i piedi un “rismo” che egli interpretò dubitativamente con “senza bisogno di veste poetica”. A. E. Quaglio accettò sostanzialmente l’interpretazione, intendendo “senza versificazione”, aggiungendo però di seguito: “Ma in questo punto la chiosa è forzatamente approssimativa” (34). Anche l’ipotesi di Contini era certo “approssimativa”, ma, sulla base delle considerazioni che qui sotto esporremo, parrebbe che  sarebbe stato sufficiente “svestire” sanza rismo della sfarzosa “veste poetica” per sostituirla con  gli umili panni di “feltro” della “rima”

Attraverso il Medioevo rithmus fu declinato in vari modi, tra cui rismus.  Karl Strecker  rinviava, per la poesia ritmica, agli studi di W. Meyer, “où l’auteur traite de l’usage du mot rythmus (rythmus, rithmus, rigmus, rickmus, rismus, rimus)  au moyen âge” (35). Ora, sulle coppie rithmus-rismus e arithmus-arismus ci scontriamo con un bel po’ di confusione e scarsa chiarezza, fino ad arrivare alla possibilità di  intravvedere una sostanziale coincidenza tra ritmo e aritmo. Se prendiamo in mano gli Elementi di retorica di Heinrich  Lausberg, alla voce “Numerus”, leggiamo: “Il numerus  (arythmós, rythmós); fr. Nombre, rythme” (36). Da ciò ne se ne  inferisce che i due termini sono interscambiabili. Nel  Dizionario della lingua italiana pubblicato dai Vignozzi [1835], alla voce Aritmo, leggiamo: “Aritmo, s[ingolare]. M[aschile]. Lo s[tesso]. C[ome]. Ritmo”  (37). Niccolò  Tommaseo asserì perentorio che tra  aritmetica e poesia,  numero e ritmo, non esiste alcuna possibilità di operare distinguo, poiché

rhythmòs e arithmòs son la medesima cosa, aggiuntavi solo una particella intensiva: che il ritmo è numero e che il numero è ritmo: che il verso è calcolo: il calcolo è canto e fa cantare; che l’aritmetica è una poesia  rinforzata: che la  poesia senza calcolo è vaporosa”  (38).

“Nel ritmo è arimmetica”, sentenziò dunque inappellabile Tommaseo (39); e rismo, secondo Francesco Patrici, “per avere Aritmo”,  “appropriò il nome comune […] a se stesso”:

“Diletto prendiam dal Ritmo,  perché ha numero noto, et ordinato, et perché con ordine ci muove. E questo Ritmo, per avere Aritmo, e numero noto, et più agli occhi manifesto […] appropriò il nome comune […] a se stesso” [corsivi miei] (40). Ora, la sostanziale compenetratio di ritmo-rismo (rima o verso) e aritmo (numero, che ha a che fare col calcolo matematico), ha fatto sì che, di fronte ai testi della nostra tradizione, si sia a tutt’oggi  incerti sul valore semantico di “rismo”.

Ciò comporta una ricaduta rovinosa sull’interpretazione. Per esempio, nei due casi canonici di Iacopone, la coppia rismo/rismi è  non soltanto equivoca, ma molto equivoca, perché si presta sia a una interpretazione prosa/poesia, sia al concetto di “rismo” come “numero” o calcolo, come si evince dagli esempi sopra citati, e da quelli che seguiranno.

Nei versi

A quanti mali è l’om sottoposto

Non porria om tosto per rismi contare,

ciò che rinvierebbe i rismi iacoponici al calcolo matematico sembrerebbe l’ acclarato verbo “contare”. Cioè: “Non  si potrebbe mai e poi mai fare un calcolo matematico dei mali a cui l’uomo è sottoposto nel corso dell’esistenza”. E che  il “calcolo” (matematico) possa in effetti essere visto come il protagonista assoluto nel contesto iacoponico   lo dimostrerebbero i versi successivi, dove troviamo i medici che “contano [calcolano] lo costo” della loro lauta parcella (41).

Ciò non toglie che il significato potrebbe invece essere il seguente:

“Non  si potrebbe mai e poi mai raccontare, cioè (contare, narrare) in rima (per rismi) dei mali a cui l’uomo è sottoposto nel corso dell’esistenza”.

“Contare”, per sovrapprezzo, è anch’esso termine equivoco: “Contare ha più significati, come si mostra appresso. I suoi derivativi, conto, contanti. I composti, accontare, raccontare” (42).  Ora, il “raccontare” o il “narrare” sembrerebbe applicarsi meglio alla prosa che non alla poesia della lauda. Però si deve considerare che il narrare in poesia viene prima del narrare in prosa: “La prosa d’arte, scrive C. Di Girolamo, nasce quasi sempre, all’origine delle singole letterature […] dopo la poesia (e ci sono anzi letterature, come gran parte delle letterature dialettali d’Italia, che fioriscono e tramontano senza che la prosa si affermi affatto)” (43). Quando perciò Iacopone canta “A quanti mali è l’om sottoposto/Non porria om tosto per rismi contare”, egli va incontro a un pubblico avvezzo a sentirsi narrare le cose “per rismi”,  e cioè in rima. Né, a tal proposito, sembrerà inopportuno ricordare la forte penetrazione popolare della lauda, con un pubblico che si aspetta, da parte del poeta, una lingua standard facilmente decodificabile. La tensione linguistica di Iacopone è “popolare” e pertanto egli non ricerca l’ambiguità o la sottigliezza nelle parole, ma la loro facile decifrazione e l’espressività popolaresca. Emilio Pasquini ha sottolineato la “predominanza di una ‘dialogicità quasi endemica’ nel laudario iacoponico come connotato primario del suo realismo” (44).

La “dottrina linguistica” di Iacopone è riassunta rapidamente nei versi ironici rivolti a Fra Ranaldo, quando gli ricorda che ormai egli ha abbandonato la “scola” dei sofismi e dei siloismi per essere ormai giunto a una ben differente “scola”: “Ionto a la scola/ove la veretate sola/iùdeca onne parola/ e demustra onne pensato”  (45). “Soltanto la Verità, dice Iacopone, giudica del valore delle parole”. Quindi, quando egli scrive il famoso verso “A quanti mali è l’om sottoposto/Non porria om tosto per rismi contare”, con rismi egli non intendeva a mio avviso riferirsi  all’intellettualistico “calcolo sillogistico”, bensì, semplicemente, al “narrare in rima”, attraverso quei “rismi” compresi persino dai ragazzini: “Et cantilenas cantabant et laudes divinas milites et pedites, cives et rurales, iuvenes et virgines, senes cum iunioribus” (46).

Nei versi

Ché non ce iova far sofismi

A quilli forti siloismi

Né per curso né per rismi

Che lo vero non sia appalato,

Barbara Bargagli ravviserebbe, sia pur cautamente e in via molto dubitativa, un rapporto rismo-rima:

“E’ difficile stabilire in che misura nella parola rismo, in virtù di analogie semantiche o formali operate dall’utente della lingua, sia stata realizzata a livello cosciente un’equazione rythmus = rima; forse essa è presente al plurale nella contrapposizione iacoponica per curso/per rismi” (47).

Infatti i rismi, anche in questo caso,  denuncerebbero una posizione estremamente ambigua, perché, almeno in apparenza,  essi sembrerebbero navigare nel tranquillo mare magnum dei sofismi e dei siloismi. Per cui,

“né il curso, né i calcoli più “sofisticati”  dei  sofismi e dei sillogismi, sembra suggerire Iacopone, servono a metterci al riparo da una verità che è quella che è” (Lauda 88, vv. 23-26).

Anche nel caso in esame, è tuttavia improbabile che Iacopone, con il verso Né per curso né per rismi,  non avesse semplicemente instaurato una mera opposizione versificato/non versificato. Costanzo Di Girolamo  sottolineava al proposito che “la retorica classica prescriveva del resto la regolazione prosodica di almeno parte del discorso in prosa (e anche la rima …); ma il cursus è sempre ben distinguibile dalla poesia” (48). Quando, dunque, Iacopone vergava curso e rismi non faceva altro che istituire una semplice opposizione non versificato/ versificato (49). Nel caso in esame, parrebbe per lo meno strano che il vecchio Iacopone, dopo aver irriso alla vacua cultura di Fra Ranaldo, fatta di sofismi e siloismi, si fosse messo a sua volta a fare il “sofistico”, sottilizzando di fino sui “calcoli matematici” o sul “calcolo sofistico”:   con curso e rismi egli istituiva una semplice e normalissima opposizione prosa/poesia (in rima) o non versificato/ versificato, come diceva Di Girolamo.  Del resto, la  stessa pseudo-iacoponica lauda Audite (o udite) nova pazzia, sia pur ritenuta apocrifa (50),  si lega nella “sostanza” (e in ciò aveva ragione Alessandro D’Ancona) (51) al sentire iacoponico visceralmente avverso ai sofismi e siloismi di Frate Ranaldo, attestando di rifiutare ogni “sottil calcolaria”:

“Io vi lasso i sillogismi/, L’obligazioni e sofismi/, L’insolubili [le tesi insolubili] e gli aforismi/ E la sottil calcolaria”. Dove la “calcolaria” è l’aritmetica (52) . Com’è stato ben detto, Iacopone elegge il “sermo humilis”, relegando “in ripa diaboli le sottigliezze stilistiche” (53).

Dunque: “Non ci giova far sofismi e sillogismi né in prosa (curso) né in rima (o versi), tanto la verità è quella che è, e non c’è un bel niente da fare”.

Anche se Barbara Bargagli giustamente lamenta che “l’origine delle parole romanze rim(e), rima è controversa”, e che ancora oggi non si riesce a mettere un “punto fermo” alla vexata questio (54), è pur doveroso riconoscere che qualche pezza d’appoggio non spregevole ce l’abbiamo. Già dalla metà del Cinquecento Andreas Semperius aveva tentato, per esempio,  di fare un po’ di chiarezza sulla questione di ritmo e aritmo, rimproverando aspramente i Latini della loro “pigrizia” nel ricercare termini precisi: “Latini vero de quaerenda alia voce parum soliciti Numerum etiam ambigue et obscurissime  nominarunt”. E poi proseguiva:

Numerus, cum ambigua vox sit, iure nobis est dividendus. Nunc enim proprie, nunc per methaphoram accipitur. Proprie sumptus duplex est. Unus Arythmeticus, unitatum Collectio definitus;  ut decem, viginti, centum: quem Graeci Arytmon ab arithmeo, quod est, Numero, vocarunt; et Latini verbo idem plane significante Numerum. Alter Musicus et ad modulandi rationem spectants. Musicus enim addens priori numerus sonus, suum facit: quem Graeci copia verborum affluentes Rythmo; Latini vero de quaerenda alia voce parum soliciti Numerum etiam ambigue et obscurissime  nominarunt” (55).

Traducendo celeriter:

Numero, dice Semperius, è termine equivoco, e a mio giudizio è necessaria una distinzione, perché, da un lato esso possiede un senso  proprio  e dall’altro uno metaforico. In senso proprio, il significato è duplice. Uno aritmetico, come dieci, venti e cento, che i Greci  definirono Arytmon, ovvero il nostro numero. Il secondo senso è pertinente alla musica, e i Greci, come sempre doviziosi e fluenti nella loro lingua, lo chiamarono ritmo. I Latini, al contrario, usarono soltanto numero, ma ne oscurarono completamente il significato, perché, nel caso specifico,  si mostrarono poco solleciti nel cercare termini più adatti”.

Alla fine del Cinquecento, Benedetto Varchi, con l’aria un po’ misteriosa di chi sta per divulgare un malnoto “segreto di bottega”, sussurrava all’ “orecchio” dei suoi lettori:

“Porgete ora l’animo non meno che l’orecchie a quello che io vi dirò. Questa parola numero è appo i Latini voce equivoca, perciocché ella significa così il numero proprio, il quale i Greci chiamano aritmo, e noi novero, come il metaforico, ovvero traslato, il quale da’ medesimi è chiamato ritmo,  benché coll’accento acuto in sull’ultima e da noi numero” (56) .

Un secolo più tardi, nel Seicento, Fra Francesco Tresatti da Lugnano, Minor osservante della provincia di S. Francesco, a commento dei “rismi” iacoponici, postillava:

Rismi corrottamente nomina (ritmo) ò (rima) che è il finale del verso volgare,  che consuona nella desinenza con uno, o più degli altri. Conciosia che un parlar è in prosa, che si usa da tutti; l’altro è in verso: i quali altrimenti diciamo, parlar corrente et parlar in rima. Il dir addunque ‘Né per corso né per rismi che ’l ver non sia propalato’ [= appalato n.d.r.] vuol significare che non vale nessuna sorte di dire, né di sottile et di sofistica risposta in quel giuditio, che per ogni verso non sia la verità palese, et aperta” (57).

Alla fine del secolo, Egidio Menagio, Gentiluomo francese, asseriva:

Rima. Rhythmus, val propriamente numerus, e armonia. Fu poi così detto il verso, perché i versi sono composti di parole ritmice, cioè di parole numerate e versificate. E perché la rima, o vogliam dir la consonanza procedente della medesima terminazione; che è quell’ornamento che i Greci chiamavano omoioteleuto, e i Latini similmente finiente; sta nel verso nostro volgare; ed è quasi l’anima di esso, come il ritmo del Latino; il Volgo chiamò rima questa consonanza, che si sente nel fine de’ versi, dando il nome generale alla spezie particolare. E quindi Rima sta per versificare” (58).

Venendo ai contemporanei, nel suo lavoro del 1975 (Langue, text, énigme),  Paul Zumthor asseriva:

« Sur le plan des associations purement formelles, [ri(s)mus] rencontre le group du verbe latin rimari (rimator), attesté ( au sense propre ou figuré de fouiller, scruter, dès l’époque latine classique, encore vivant chez  Priscien et dans le haut Moyen Age (Du Cange), et producteur des formes romanes dialectales, telles  que rimer (écorcher, en Sologne) et rime (gerçure, en Anjou) » (59).

Inoltre, incalzava Zumthor,  che rismo altro non sia che il rimo o rima lo dimostrerebbe anche la fiera lotta che il primo dovette combattere col secondo per la supremazia:

“Une hésitation  entre les prononciations [rimus] et [rismus], la prèmiere sans doute plus générale à l’époque ancienne ; la seconde s’affirmant, peut-être sous l’influence de la graphie antique,  peut-être aussi  de la prononciation byzantine du theta à l’age scolastique» (60).

In tempi a noi ancora più vicini, D’Arco Silvio Avalle rilevava pur sempre le notevoli incertezze riguardo a rithmus per via delle differenze tra le Artes Exametri,  AE, e le Artes Ritmice, AR; ma alla fine il rapporto rithmus-rismus-verso-rima è stabilito in modo direi inoppugnabile :

“ Noi sappiamo, scrive D’Arco Silvio Avalle,  che la parola rhythmus ha dato origine sia a ritmo, nella tradizione scolastica, sia a rima (vox rithma, con assimilazione regressiva t-m; ma non mancano altre spiegazioni). Ritmo e rima fanno dunque parte  del medesimo campo onomasiologico e concettuale”. Riferendosi infine a un passo di Uguccione, si stabiliva il rapporto rithmus-rima:

“La rima [rithimus] è il  suono di una  canzone [l’armonia musicale della canzone si basa sulla rima]; inoltre rithimus in greco corrisponde al  latino numerus, in quanto basato sul computo delle sillabe o voces; da rithimus proviene rithimicus, -a, -um che significa dolcemente consonante, oppure perché fatto di rime; inoltre il verbo rithimor, -aris che significa rimare [AE] oppure fare dei versi di tipo ritmico [AR]. Questo è uno dei primi testi a noi giunti in cui ritmo è usato nel significato di rima; l’impressione è però che l’uso (riscontrabile più tardi ancora in Dante: cfr. De vulg. El., n v 4, ecc.) faccia capo a tradizione già affermata. Per quanto riguarda invece l’uso di ritmo nelle AR andrà osservato che, ancora una volta, la definizione che conta è quella di Beda” (61).

E cioè, come diceva Beda, i “rithmi” (rismi) sono i “carmina uulgarium poetarum”: i versi (o rime) dei poeti che scrivono in volgare.

Venendo ad altri esempi canonici di rismi tenuti generalmente per dubitosi,  nello Zibaldone da Canal (62), leggiamo:

Chi inprende [=impara] questo rismo de bon core,

Dio li defenda de mal e de dollore.

In questi versi  non si sfugge alla netta impressione che, nel contesto dei versi dell’Anonimo, rismo abbia “soltanto” il  valore suo proprio di rima o verso.  Qui rismo avrebbe dunque valore di “componimento versificato rimato”. Negli “Amaistramenti di Sallamon, ricavati dallo Zibaldone da Canal (pp. 101-108), scrive Barbara Bargagli Stoffi-Mülethaler, l’anonimo autore chiama il suo componimento versificato rimato una volta ditato e una volta rismo:

E chui de bon cor lece questo ditato […] Chi i(n)prende questo rismo de bon core”. Qui rismo è  il rismo della versificazione: “Rithimus sonus cantilene […] rithimor, aris id est consonare, vel rithimos facere” (63).

Barbara Bargagli citava anche un altro caso di rismo-risme (come rima), interveniente nel Tresor di Brunetto Latini. Il rismo/rima, dice  sempre cauta la Bargagli,  “sembra essere presente anche nel Tresor quando Brunetto insiste sull’importanza dell’ ‘accordo’ e dell’accento: Car ja soit que tu acordes les letres et les sillabes, certes la risme n’ert ja droit se l’accent se descord (III X 2)” (64). Paul Zumthor, intervenendo sul “risme” di Brunetto Latini osservava:

“Dans l’ésprit de Brunet Latin , ri(s)me équivaut à rhythmus […] En provençal, il faut attendre les Leys d’Amors (milieu du XIVe siècle) pour trouver de rima une définition explicite : « Rims es certz nombres de sillabas ajustat a duy bordo per pario d’aquela meteysha acordansa » (65).

Ma qual significato allora dare a sanza rismo- rima nel verso di Cavalcanti? Il “sanza rima” non è, credo, da intendersi con Ciccuto secondo cui “si giunge alla necessaria dimostrazione senza bisogno di rime troppo ricercate” [corsivo mio] (66), ma proprio nel senso più neutro dell’espressione. A questo punto dobbiamo ancora ricorrere al sillogismo, quello perfetto, che  Cavalcanti dà tra il secondo e terzo verso:

 

In maggiore e in minor mezzo si pone,

che pruova necessario sanza rismo

 

Poiché il “necessario” sgorga automaticamente e “naturalmente” dal medio, è evidente che esso è assolutamente “sciolto” da qualsiasi legge o regola: esso, al contrario della rima,  è “irrelato”,  obbedendo perciò soltanto alle sue proprie leggi interne, sganciato da ciò che è “fuori di sé”; o, per dirla con Aristotele, riguardo al sillogismo “perfetto”,  “ [dico] quoniam nullo externo termino opus sit, ut existat necessarium” (67);   mentre leggi, regole e legami solidali  vincolano indissolubilmente la rima alle consorelle.

Parlando della rima, e cioè  De rithimo, Dante stesso aveva espressamente fatto riferimento  alle “leggi” che la governano: per le “stanze” più complesse, “semper hac lege prefruimur”, diceva Dante; cioè, “applichiamo sempre questa legge”: sottinteso,  della “rithimorum quoque relationi” (68).

Il “necessario” dunque, nella sua “incontrollabile” assolutezza e libertà da qualsiasi vincolo esterno a se stesso, sembrerebbe far saltare per aria ogni “regolarità” e “gerarchia”, manifestandosi “sanza rismo”; cioè,  “apparendo”, e mostrando le proprie epifanie  sanza i vincoli (o le “leggi”) a cui  la rima è, per definizione, “incatenata”, quasi prigioniera di se stessa.  Il “necessario” sarebbe, dunque,  “sanza rismo”:  nella sua assoluta autonomia rispetto ad altro da sé, esso sarebbe “oltre” e “al di sopra” delle leggi che invece  governano la rima. Cavalcanti sembrerebbe quindi concludere, rivolgendosi a Guittone:

“Il sillogismo perfetto è fatto così e così, e rima più non v’appulcro!”.  O addirittura meglio: “Non ho intenzione di scomodarmi, né di muovere un passo per aggiungere una sola rima in più rispetto al metodo dato”. Aggiungendo: “O pensi forse che le cose stiano in modo diverso?”.

I termini in –ismus sono tra i più antichi dell’area mediterranea a insinuarsi nel mondo cristiano, e sono nomi d’azione:

“Nel caso specifico, spiega Paola Dardano, hanno avuto un ruolo rilevante le formazioni latine in –ismus, riconducibili al greco ismòs, quest’ultimo suffisso impiegato per formare nomi d’azione (corsivo mio) […] e correlati ai presenti in Izo” . Nell’ambito della terminologia cristiana si ha talvolta una serie completa di tre termini: il verbo in –izare, il nome d’azione in –ismus e il nome d’agente in –ista –istes: …(da catechizare) catechizo-catechismus-catechista” (69).

Ora il verbo “rhythmizare” scaturì come per incanto tra il 117 d.C. e il 192 d.C. E’ altresì evidente che, se quanto attesta Paola Dardano  è vero, e lo è,  da rhythmizare scaturì per vie impervie ma sicure anche il suo nome d’azione, rismo: e “fare rismo” significa far rima, mettere in atto, agire la rima. Ciò è attestato da tutti i nostri grammatici, “poiché rima appunto si deriva da Rhitmus, Rismus, Rimus, Rima, pronuziandosi il th per s alla Greca”:  così chiosava  Aniceto Nemesio nel Settecento, ripetendo ciò che altri prima di lui avevano detto (70). “Con” questo senso,  la lezione tradizionale, attestata da tutti i codici,  “sanza rismo”, nel significato di “senza rima [aggiuntiva]”, sembrerebbe  reggere più che bene in sella, senza abbisognare d’alcuna divinatio integrativa.

La storica dittologia rismo/rima è addirittura più antica  di due  termini su cui si è a lungo discusso: barbarizare  (da cui barba-rismo) appare infatti fra il 500 e il 600 d.C.; e allo stesso periodo risale anche syllogizare (da cui syllo-gismo)  (71).   La coppia rismo/rima  attraversa tutta la storia della nostra tradizione poetica e grammaticale; e davvero parrebbe che Cavalcanti non avesse potuto pensare ad altro che alla rima quando il rismo gli sfuggì di penna per la dannazione dei posteri.

Qualcuno potrebbe sottilizzare eccependo che anche “arismo” è un nome in –ismo. Vero. Però c’è il fatto, assolutamente dirimente, che rismo compare in tutti i codici, mentre arismo no.

 

Tropi (e risate) di Cavalcanti

 

Ora, per un poeta come Guittone, che s’era sì avvilito (senza esagerare, perché “Chi troppo s’umilia non è saggio”, diceva l’esperto Guittone), ma anche auto-incensato per la sua propria “perizia tecnica”, sentirsi dire da un “intendente” della statura di Cavalcanti che non sapeva mettere insieme, non dico un sillogismo, ma neppure una “fighura” decente, che non scadesse per “necessitate” in un solecismo costituì un “vulnus” terribile, di cui ne avrebbe risentito nei secoli ( e la riprova ne è che siamo ancora qui a discuterne). Ma Cavalcanti intendeva soprattutto dire, a parere di Papahagi, che Guittone era “sempre” stato in quella condizione di “difetto di saver”.  Papahagi, infatti,  rigirando il ferro nella piaga, commentava all’uopo:

“Dal punto di vista del criterio  rappresentato dalla ‘figura’ (indifferentemente dal suo significato concreto) Guittone appare fondamentalmente lo stesso sia nel passato che nel momento in cui avviene lo scoppio polemico del fiorentino”  (72).

Essendo dunque Guittone in assoluto “difetto di saver” dal tempo dei tempi, è manifesto che, in simili condizioni, “ non si può costruire neanche un sofismo, che pur richiede almeno l’apparenza di un processo raziocinante”  (73).

Indi Cavalcanti dà la stoccata finale, dove è sempre la lingua di Fra’ Guittone a subire i più fieri tormenti:

e pon’ cura,

ché ’ntes’ ho che compon’ d’insegnamento

volume: e fòr principio ha da natura.

Fa’ ch’om non rida il tuo proponimento!

Cavalcanti  ironizza ferocemente sul fatto d’aver sentito dire in giro che, addirittura, Guittone avrebbe ventilato (l’invereconda) intenzione di scrivere un intero trattato didattico:

roba da far ridere  l’ “om”: che è come dire, “tutti”.

Il ridicolo cui si espone Guittone è senza dubbio rafforzato dall’espediente ironico-parodico di mettere a raffronto una cosa “grande” come un Trattato con la “piccolezza” manifesta di un poeta che si ostina a scrivere pur essendo in acclarato “difetto di saver”. E’ stato opportunamente osservato che l’immagine dell’ “om” ‘che ride’  del poeta inesperto ma che pure si ostina a far versi è molto “oraziana”, essendosi Cavalcanti rifatto agli   smodati cachinni degli spettatori del circo, i quali, diceva Orazio, ridono sgangheratamente del poeta “qui nescit versus tamen audet fingere” [che non sa far versi, ma si ostina a scriverne]” (74).  E ce n’è ancora per un “capzioso” facitore di  barbarismi e sbilenchi sofismi come Guittone: il barbarismo, per esempio, va a spiegare anche l’espressione singolare di Cavalcanti, laddove cioè egli dice d’aver inteso che Guittone, in assoluto “difetto di saver”, avrebbe coltivato l’intenzione di comporre un trattato, o, per meglio dire, un “d’insegnamento volume”: ma ciò, esclama l’inviperito Cavalcanti,   “ fòr principio è d[e] natura”. Nella sempiterna coppia  barbarismo-solecismo, il primo termine non era soltanto un vitium, ma, teste Plinio,  il barbarismo è un vitium contra naturam  (75).  Quando poi  il solecismo non è frutto di una volontaria scelta stilistica del poeta, ma d’imperizia, è classificato come “figura” o σχῆμα: “soloecismus è σχῆμα ” (76) . Cosicché Quintiliano, osserva ancora la Torzi,  nota un “labile confine tra σχῆμα e vitium; e quando si parla di σχῆμα, s’intende vitium soloecismi  o errore per imprudenza”  (77). Il tropo-barbarismo e lo skèmatasolecismo sono  “frutto di un errore o di un disordine, non di una scelta stilistica”  (78). Quanto ai sofismi, “qui captiose loquitur, scriveva Bernardo de Ribera, per meram inconsiderantiam, […] nesciens, ut dicitur, quid facit ” [Colui che parla in modo capzioso (per sofismi), e per mera sconsideratezza, come si dice, ‘non sa quello che fa’] (79).  E allora Cavalcanti, ben sapendo che Guittone “non sapeva quel che (si) faceva”, lo redarguisce:

“Continui a persistere nell’errore (80),  seppure ti abbia ammonito  più volte; e osserva, nota bene (e pon cura),  che ho inteso che (componi) stai componendo un intero volume didattico (d’insegnamento volume). Questo, incalza protervo Cavalcanti,  se me lo concedi, è contra naturam (come i tuoi barbarismi).  Cerca di non far sghignazzare  ogni “om”  con siffatto proposito (proponimento)”

Rismo: il tropo dell’ “om che (se la) ride”

 

E con “l’om che (se la) ride” alle spalle d’un povero malcapitato, siamo al punto nodale (almeno per quanto ci riguarda)  dello scioglimento  dell’enigma  del rismo cavalcantiano.  Come s’è detto da sempre, Da più a uno face un sollegismo è una tutt’altro che  velata irrisione di un Guittone in assoluto difetto di saver . Ireneo Sanesi,  incattivito nei confronti di Ettore Rivalta, il quale, con argomenti a suo parere non risolutivi, aveva negato la paternità di Da più a uno face un sollegismo a Cavalcanti, chiosava:

“Basta leggere, infatti, quei quattordici versi per avvertire subito l’intento satirico e, quasi direi, canzonatorio del poeta; il quale, evidentemente, volle scrivere una specie di parodia della maniera poetica guittoniana tutta infarcita di astrusi ragionamenti e tutta imbevuta di dottrinarismo filosofico” (81).

Ora, la fonte “misteriosa”  dell’enigmatico rismo  potrebbe essere stata, al di là dei calcoli e dei numeri di cui si è discusso sopra,  il vecchio Quintiliano e la sua Institutio Oratoria; e in particolare il Libro VIII, 6, 59 dell’Institutio.

“Sunt etiam, qui haec non species allegoriae. Sed ipsa tropos dicunt  […] . Adjicitur his μυκτηρισμóς dissimulatus quidem, sed non latens derisus” (82).

Sebbene Quintiliano fosse conosciuto nel Medioevo per excerpta, “il Medioevo, scriveva Henri de Lubac , non cesserà mai di leggere la definizione venuta da Quintiliano [8, 6, 44]”, secondo la quale l’allegoria  “aliud verbis,  aliud sensu ostendit’”  (83). Del resto Quintiliano era tappa obbligata nei curricula dei giovani, prima di arrivare a Cicerone:

“La stessa natura ‘letteraria’ delle opere retoriche ciceroniane, composte oltretutto nella forma più libera del dialogo, ne impediva un uso nei livelli scolastici intermedi, dove dovevano essere preferite opere di struttura più sistematica, come le stesse Institutiones di Quintiliano” (84).

Remigio Sabbadini ci attesta che  “il testo di Quintiliano adoperato comunemente nel Medioevo era mutilo, mancava cioè delle seguenti parti… ecc.”; poi,  venendo al Libro VIII, che qui ci interessa direttamente, mancavano, a detta di Sabbadini, l’ VIII, 6, 17 e l’VIII, 6, 67 (85).  Non sapremmo proprio quale manoscritto di Quintiliano Cavalcanti avesse avuto per le mani; però possiamo determinare con assoluta certezza i codici che egli “non”  ebbe per le mani: ossia quelli siglati A, F, G, M, S.Winterbottom, in apparato , dà la variante di μυκτηρισμóς in A, risalente al IX secolo: A Ambrosianus E. 153 sup., saec. IX: misteriismos. Secondo lo stemma fornito da Winterbottom , da A deriva  F, il Laurentianus  46.7, saec. X  (86). Il suddetto manoscritto Laurentianus 46.7 (87) offre una datazione che va dal 1001 al 1100, e dà una  lezione assolutamente risibile  (teste Winterbottom), e cioè ministeriis modis simulatur  (88). Winterbottom  pone il Laurentianus  46. 7  tra i codices recentiores (saec. XV), datandolo 1418  (89).

Intervenendo ancora sul tema in un saggio sul Bullettin Supplement  del 1970, Winterbotton osservava  che una variante in A era misteriis. mos dissimulatus, poi corretto dal Regius in p con mycterismos  (88). Sempre meglio, diceva Winterbottom, della lezione di G, ministeriis modis simulatur (90),  e fratello di numerosa famiglia, contante A, A1, F, M, e S, almeno sul punto in questione. Come ci spiega Karl Halm:

“A1 μυκτηρισμóς Regius: misteriis A, ministeriis GMS, dissimulatus A, et Spalding modus simulatus S, modis simulatur G M (91).

Ma andando oltre i manoscritti citati,  e cioè ai cosiddetti “mutili” (il Bernensis 351, il Nostradamensis  [Paris, Lat. 18527], e il  Bambergensis [M. 4, 14]; tutti  del X secolo), largamente circolanti, essi contemplavano tutto il libro VIII tranne alcuni passi:  VIII 3. 64, VIII 6.17, e VIII 6.67; gli ultimi due  già menzionati da Sabbadini  (92).

Ci sono ottimi motivi che portano pertanto a ritenere che  Quintiliano fosse stata la fonte “galeotta” cui Cavalcanti si riferì nella stesura del suo sonetto. E per un intellettuale del suo calibro, ricco sfondato, e in contatto diretto con la Facoltà delle Artes di Bologna (di cui la Quaestio de Felicitate è prova inconfutabile), non credo proprio fosse un problema procurarsi un manoscritto decente di Quintiliano, o un suo altrettanto decente interprete, come Carisio, per esempio:

“Per mysterismon, id est derisum  quendam, tam quam vidi te Ulixes, saxo sternentem Hectora,/vidi legentem clipeo classem Doricam:/ego tunc pudendam trepidus [ pedibus] hortabar fugam”. Haec omnia derisu quodam dicta sunt a fortiori ad non fortem” (93).

Quintiliano  si diffuse a piene mani riguardo al “De virtutibus et vitiis orationis”.  Nel Libro I trattava in modo largo e disteso  sia del solecismo sia del barbarismo; e, fra i vari tipi di barbarismo, ricordava la metatesi, intesa come “trasmutatio litterae vel sillabae”, per cui, ad esempio, diceva Quintiliano, taluni dicono “preculam pro pergula” (94). Non mi pare che Cavalcanti abbia fatto una cosa tanto diversa, trasmutando ironicamente, a rimarcare l’insipienza di Guittone, il sillogismo in un ben strano sollegismo. E’  in Quintiliano che troviamo la parola che spiega il rismo di Cavalcanti:

“Dissimulatus quidem, sed non latens derisus”; vale a dire myktērismos, una forma coperta, ma non totalmente inavvertibile, del ridicolo.

Laddove Quintiliano si diffondeva sull’allegoria, sul sarcasmòn  et alia,  asseriva che in moltissimi tropi è sì importante ciò che si dice, ma lo è ancora di più quel che si sottintende, ciò che si vuol dire  in  altro senso, spesso ironico, per irridere,  facendolo aperte e senza tanti complimenti (95)

E Alexander Numenius, nel De Figuris, riguardo a “ironia”, scriveva:

De Ironia. Caput  XVII. Ironia oratio est quae contrario dicere fingitur […] Sunt quatuor/ ironiae formae, urbanitas, subsannatio, sarcasmus, irrisio […] mycterismòs”  (96). B. Bernardo, sul finire del XVI secolo, sentenziava:

Mycterismus est risus simulatus, sed non latens, quod Persius Naso supendetere vocat : mycter. Graece nasum significat “ (97). Concludiamo con le dotte osservazioni di Véronique Montagne, per la quale il mycterismus è una “ironie gestuelle”:

“Ainsi, dans son Institution oratoire, Quintilien complète-t-il la liste des procédés linguistiques par l’évocation d’ ‘une certaine moquerie dissimulée, mais apparente, que les Grecs appellent μυκτερισμός [mycterismos],c’est-à-dire ‘un genre de critique qui s’exprime par un mouvement des narines’»  (98).

Si legge fra le frivolezze letterarie che “Petrarca aveva grande statura, carnagione chiara, quantunque maschia e occhi chiari. Guido Cavalcanti aveva viso lungo e lungo naso, carnagione chiaro-rosea; Cino da Pistoia occhi chiaro grigi e carnagione rosea” (99). Possiamo quindi dire a cuor leggero che il Nasutus  voleva dimostrare a Guittone di avere “buon naso” nel giudicare dei poeti come lui:

“L’avverbio nasute suggella il comportamento del filosofo, che, nel rifiutare l’offerta del re, evita di assumere un comportamento superbo e altezzoso. Il termine nasutus si rifà in primo luogo all’idea che ‘avere naso’ comportasse ‘avere fiuto’, vale a dire fiuto stilistico, ma anche fiuto per riconoscere i vitia, che implica quindi la capacità di essere impietosamente critici” (100). Fra i trattatisti moderni di retorica,  che si soffermarono a lungo sul “mictirismo”, citerei infine Jacopo Mazzoni, il quale scrisse:

“La deriuatione della voce Mictirismo ci palesa un cenno, che è solito à farsi per beffa, e per ischerno di chi che si sia,  e mostra apunto [sic] in greco, quello che diciamo in vulgare Dar del naso. E però credo,  che questa specie d’ Ironia sia allhora,  che havendo dette alcune parole,  che si ponno intendere in buon sentimento, mostriamo d’haverle dette in senso di burla, e di scherno, con qualche cenno fatto d’ascoso à colui, sopra il quale si ragiona. Hora questo cenno era solito d’esser fatto dagli Antichi col naso, colla bocca & ultimamente colle mani. Di quello del naso ha parlato Horatio in molti luoghi, come in quello …

Rides, ait, et nimis uncis/Naribus indulget.

Et per questo furo detti Nasuti quelli che sapevano beffar gli altri” (101)

“A tutti questi tropi prima da me discussi, diceva dunque Quintiliano, possiamo aggiungere il μυκτηρισμóς [mycterismos], un’irrisione dissimulata, ma non del tutto occulta a un lettore smaliziato”.

Cos’aveva dunque combinato il nostro arguto quanto Nasutus Cavalcanti avendo probabilmente tra le mani gli excerpta di Quintiliano o d’altri grammatici, come Carisio?

Cavalcanti  lesse  μυκτηρισμóς (più facilmente mycterismus): un termine coinvolgente, produttivo, accattivante, e molto evocativo,  per i suoi intenti satirici . Non sappiamo quanto Cavalcanti potesse sapere di greco, ma certamente né più né meno di quello che ne sapeva Dante (forse qualcosa in più): non era egli un Tullio medesimo o forse Quintiliano, a detta di Boccaccio?   Indi, Cavalcanti non fece se non un magnifico metaplasmo su μυκτηρισμós- mycterismus. Discorrendo sul metaplasmus-figura e metaplasmus-tropus Ilaria Torzi rileva come Plozio Sacerdote istituì  un parallelo “fra metaplasmi e figure”, arrivando a fare  “una trattazione unitaria delle due virtutes:

“Inter figuram et metaplasmum hoc est, quod figura virtus est veniens ex soloecismo, metaplasmus  vero veniens de barbarismo […]  Metaplasmus vel figura est dictio aliter composita quem debet metri vel decoris causa” [corsivo mio] (102).

Cavalcanti pertanto con “rismo” (μυκτη-ρισμóςmycte-rismus), non potendo il verso “supportare” il  μυκτη, o  “naso”  di μυκτηρισμóς- mycterismus, troncò di netto il suddetto “naso” , mentore Plozio Sacerdote, metri causa,  facendone un emerito quanto iper-enigmatico e iper-derisorio misteriosissimo rismo (verbi scissione) colpendo dritto al naso il sempiterno sonante Guittone e le sue aborrite “canzoni”.  Prima che il termine mycterismus assumesse il valore essenziale di “deridere”, l’etimologia traduceva  infatti il verbo  μυκτηρίζειν  nel senso di  “colpire sul  naso”: poi ci si spiega che “il verbo μυκτηρίζειν non signific[a] ‘colpire al naso’, ma ‘sbeffeggiare qualcuno’”  (103). Al pari di Socrate, Cavalcanti, il maggior loico di Firenze, mostra di possedere  un vero e proprio μυκτὴρ ῥητορόμυκτοςun naso soffiato dai retori, vale a dire un “sarcasmo alla maniera dei retori” (104).

Attraverso il metaplasmo su mycterismus, che provoca un  fortissimo straniamento della parola, che pare addirittura un’ “altra”,  Cavalcanti  “tagliò”, come si  suol dire ,  non “la testa al toro”,  ma  il  μυκτη o naso (metri causa), lasciando sulla pagina  solo un  moncone, rismo;  non facendo altro, alla fine, se non ciò che in retorica si definisce un’emerita “detractio metaplastica”, ossia “il taglio dell’inizio della parola [che] si chiama aphaeresis”  (105).

Come tradurre allora il sardonico rismo di Cavalcanti, che invita a fare ciò che aveva suggerito Quintiliano indicando il tropo “μυκτηρισμóς dissimulatus quidem, sed non latens derisus?” I  sinonimi abbondano: nugae, sciocchezze, frivolezze, inezie, futilità, bagattelle, insulsitas, ciance, baje, chiacchiere,  e, insomma, roba da riderci soltanto su: ridicole stoltezze.

“Il sillogismo si fa dall’universale al particolare: tra le due premesse si pone il medio, da cui scaturisce la conclusione, sanza rismo; cioè, senza bisogno di aggiungere inutili  sciocchezze, futilità, chiacchiere o insulsaggini e ridicole stoltezze:  ossia le “stoltezze”, per dirla con Dante, tipiche di Guittone. Rismo:  una presa per il naso sotto il velame, neanche tanto “velato”, dell’ironia più sottile.

Cavalcanti  volle  essere infatti  fin troppo esplicito  con uno che “contava”, a cui doveva pur qualcosa, e soprattutto che “contava” ancora innumeri estimatori; perciò il Nasutus fece si fece  uscir di penna et calamaio un sarcastico rismo, debitamente “lavorato” di cesello per metaplasmo e dedicato a tutti gli intendenti, e in particolare a Guittone.

“Sic Νasus Latinis dicitur non solum ea irrisio, quae serio sit,  ita ut irrisus eam agnoscat”  (106).

Per farla breve, Cavalcanti  voleva che Guittone capisse il rismo-romanzina:

“Ita ut irrisus eam agnoscat”. Perché il tizio, “preso per il naso”, sapesse e capisse!

L’accettazione del “mictirismo” costituirebbe pertanto ulteriore testimonianza ( se ancor bisogno ce ne fosse) delle singolari abilità linguistiche e inventive di Cavalcanti, il quale, al contrario di Guittone, fece dell’ “obscuritas” non un “vitium”, ma una “virtus”.  Al contrario di Guittone, Cavalcanti non faceva “barbarismi” ma “metaplasmi” per “licenza poetica”  (107). Di qui scaturisce anche l’ironia,  che prima si scarica sulla parola (μυκτηρισμóς-rismo),  e poi continua “come ironia di pensiero”  (108).

Potremmo quindi concludere dicendo che, mentre Guittone faceva soltanto “errori” (solecismi e barbarismi), Cavalcanti creava invece figure “licenziose” come i metaplasmi. Troncando μυκτη-ρισμóς , e riducendolo a “rismo”, il Magister Guido  de Cavalcantibus volle “pruovare” per sillogismo a Guittone,  che  non era certo un “Novellino” in fatto di retorica, ma  che, a detta di Cavalcanti,  s’era ridotto a fare solo banali barbarismi-dialettalismi,  cosa significava, invece,  “facere” un tropo-trappola ricolmo d’irridente ironia:  facere,  cioè, un (quasi) impenetrabile synonymum , e ciò grazie soltanto a un taglio netto nel “corpo tropico della parola” (109).

Rismo: le ridicole stoltezze di Guittone d’Arezzo.

L’espressione fu vidimata da Dante nella Vita Nova:

“E questo il mio primo amico ed io ne sapemo bene di quelli che rimano stoltamente”.

 

Note

1)      Alfredo Schiaffini, “Dante giudice di poesia”, in  Italiano antico e moderno, 1975,  p. 91.

2)      Ibidem.

3)      Ivi, p. 94.

4)      Noemi Ghetti, L’ombra di Cavalcanti e Dante, Roma, L’Asino d’oro, 2010, p. 28.

5)      Alfredo Schiaffini, Dante giudice di poesia, cit., p. 92.

6)      Il testo di riferimento è quello approntato da G. Contini, Poeti del Duecento, Milano-Napoli, II, p. 557.

7)      Per tutta la discussione sulla questione rismo-arismo, e altre ipotesi,  si vedano C. Giunta, “Una parola di Guido Cavalcanti: ‘Orismo’?”, in Lingua e Stile, XLI 1 (2006) pp. 101-108,  pp. 1-2 dell’Estratto; Enzo Cecchini, “Filologia e strumenti lessicografici” in AA.VV., L’Edizione di testi mediolatini. Problemi Metodi Prospettive. Testi della VIII Settimana Residenziale di studi medievali, Carini, 24-28 0ttobre 1988, in Scrinium, gennaio-dicembre 1991, n. 20-21,  pp. 88-89. Per le varianti codicologiche e tutte le posizioni critiche, cfr. l’ottimo lavoro di Nicolò Pasero, “Contributi all’interpretazione del sonetto ‘Da più a uno face un sollegismo’ di Guido Cavalcanti”, in Medioevo letterario d’Italia, 2009, n. 6. Pasero propone il sonetto con qualche variante di punteggiatura,  ma “rismo” è preferito alla fine ad “arismo”, accettato dal Favati.

8) Guido Favati, “Tecnica e arte nella poesia cavalcantiana”, in Studi Petrarcheschi, 1950, III, p. 135.

9) Enzo Cecchini, Filologia e strumenti lessicografici, cit., p. 88.

10) Luigi Surdich, “Rassegna bibliografica, Origini e Duecento”, in La Rassegna della letteratura italiana, 2007, Vol. I, p. 175.

11) Marian Papahagi, “Una lezione di logica nel Duecento (per l’ interpretazione del sonetto cavalcantiano ‘Da piu a uno face un sollegismo’)”, in Studia Universitatis Babeș-Bolyai: Series philologia, 1993, n. 4, vol. 38,  p. 18 nota 62.

12) Giovannella Desideri, “ ‘Da più a uno face un sollegismo’ (v. 11, e 6 e 12), e il cuore duro di Nerone Cavalcanti”,  in Critica del testo, 2001,  IV, 2, p. 469.

13) Flaminio Pellegrini, “Rassegna bibliografica”. Recensione a Giulio Salvadori, La poesia giovanile e la canzone d’amore di Guido Cavalcanti, Roma, Società Editrice Dante alighieri, 1895, in GSLI, 1895, Vol. XXVI, pp. 209-210.

14) In nota (p. 210 nota 2) F. Pellegrini chiosava, a proposito di arismo e della sua interpretazione: “Do questa spiegazione come soltanto probabile, e la conforto con l’uso comune dei secoli XIII e XIV di arismetica e suoi derivati”. L’interpretazione, come si sa, fu in seguito proposta da Favati, e indi accolta  da De Robertis: “Il testo assunto come base del presente commento, scriveva De Robertis,  è quello costituito da Guido Favati, nella sua fondamentale edizione critica del 1957” (Guido Cavalcanti, Rime, a cura di D. De Robertis, Torino, Einaudi, 1986, p. 243).

15) Silvio Maracchia, “Matematica e conoscenza nell’antica Grecia”,  in Cultura e Scuola, luglio-settembre 1980, n. 75, pp. 249-267. Per le citazioni, cfr. le pp. 250, 259, 249.

16) Il Comento di Giovanni Boccacci sopra la Commedia, con le annotazioni di A. M. Salvini, preceduto dalla Vita di Dante Allighieri, per cura di Gaetano Milanesi, Firenze, Le Monnier, 1863, Vol. I, pp. 87-88.

17) Sylva Synonymorum,  Labore F. Simonis Pelegronii, Amsteroladami, Vendunter Apud Henricum Barnardi, Anno 1615,  p. 273.

18) Phrases et formulase linguae latinae elegantiores Stephano Doleto auctore, 1585, p. 23.

19) Maria Corti, “ Studi sulla sintassi della lingua poetica avanti lo Stilnovo”, in Atti e Memorie dell’Accademia toscana di Scienze e Lettere “La Colombaria”, Firenze, Olschki, MCMLIV, p. 303.

20) Enzo Cecchini, Filologia e strumenti lessicografici, cit., pp. 88-89.

21) Sorin Stati, “Il significato delle parole in una prospettiva testuale”, in Lingua e Stile, 1984, XIX, 1, pp. 117-133, p. 128.

22) Ciro Trabalza, Storia della grammatica italiana, Milano, Ulrico Hoepli, 1908,  p. 34 e nota 3.

23) Raffaele Pinto, Dante e le origini della cultura letteraria moderna, Diffusion hors France, Editions Slatkine, 1994, p. 68; e De la philosophie scolastique, par B. Haureau, Paris, Pagnerre Editeur, 1850, Tome Second, p. 240 nota 3.

24) Paraphrasis in Universum Aristotelis Organum, Cum Quaestionibus et Adnotationibus ad loca obscuriora. Auctore Antonio Scayno Salodiensi, Bergomi, 1599, p. 13.

25) Aristotelis sententiae omnes undiquaque selectissimae …, Parisiis, Apud Martinum Iuvenem, MDLIII, p. 16.

26) Enzo Melandri, La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia, Bologna, Il Mulino, 1968, p. 669.

27) Ivi, p. 644.

28) “Carmen de algorismo”, in Rara Mathematica: Or, A Collection of Treatises on the Mathematics and Subjects Connected with Them, Edited by James Orchard Halliwell, London, John William Parker, 1839,  p. 73.

29) Nadia, Ambrosetti, L’Eredità arabo-islamica nelle scienze e nelle arti del calcolo nell’Europa medievale, Milano, LED, 2008, p. 233.

30) Ivi, p. 213.

31) Bruno Migliorini,  “Dal nome proprio al nome comune”,  in Archivum Romanicum  XII-XIII,I, Firenze Olschki, 1927. Supplemento in Atti e Memorie dell’Accademia Toscana di Scienze e Lettere “La Colombaria”, vol. XXXIII, N. S. XIX,  1968, pp. 116-117. La rapida citazione di Bruno Migliorini si riferiva a G. B. Pellegrini, “L’elemento arabo nelle lingue neolatine con particolare riguardo all’Italia”,  in  L’Occidente e l’Islam nell’Alto Medioevo (Spoleto, 2-8 aprile 1964), Spoleto, 1965, p. 741.

32) Jens Høyrup, Jacopo da Firenze’s Tractatus Algorismi and Early Italian Abbacus Culture. Appendix: The Revisited Version, Milan and Florence, Basel-Boston-Berlin, Birkhauser Verlag AG, 2007, pp. 383-384 e p. 6.

33) Alberto Gessani, Dante, Guido Cavalcanti e l’ ‘amoroso regno’, Quodlibet, 2004, p. 188 nota 86.

34) Antonio Enzo Quaglio, “Gli stilnovisti”, in Lo Stilnovo e la poesia religiosa, a cura di Emilio Pasquini e Antonio Enzo Quaglio, Bari, Laterza, LIL 2, p. 36, nota ai vv. 1-3 (di Da più a uno face un sollegismo).

35) Karl Strecker, Introduction à l’étude du latin médiéval, Paris, Librairie E. Droz, MCMXLVI, p. 47.

36) Heinrich  Lausberg, Elementi di retorica, Bologna, Il Mulino, 1969, p. 255.

37) Dizionario della lingua italiana, Livorno, Pei Fratelli Vignozzi, 1835, p. 243.

38) Alfredo Bonfatti, La dottrina dell’arte in Niccolò Tommaseo, Paideia, 1950, p. 72.

39) Dizionario d’estetica di Niccolò Tommaseo, Milano, Fortunato Perelli, 1860, Vol. II, p. 306.

40) Della Poetica di Francesco Patrici …, in Ferrara, Per Vittorio Baldini, MDLXXXVI, p. 332.

41) Iacopone da Todi, Laude, a cura di F. Mancini, Bari, Laterza, 1980,  p. 170, 58, vv. 129-132.

42) Il memoriale della lingua italiana del  Pergamini, In Venetia, Appresso Giovanni Cagnolini, MDCLXXXVIII, p. 104.

43) Costanzo Di Girolamo, Teoria e prassi della versificazione, Bologna, Il Mulino, 1976, pp. 103-104.

44) Emilio Pasquini, “Realismo e immaginario nel laudario di Iacopone da Todi”, in Emilio Pasquini, Fra due e quattrocento. Cronotopi letterari in Italia, Milano, angeli, 2012, p. 60.

45) Iacopone da Todi, Laude, a cura di F. Mancini, cit.,  88, vv. 15-18, p. 279.

46) Il passo della Cronica di Salimbene in Emilio Pasquini, “La Lauda”, in Lo Stilnovo e la poesia religiosa, a cura di Emilio Pasquini e Antonio Enzo Quaglio, cit., p. 152.

47) Barbara Bargagli Stoffi-Mülethaler, “ ‘Poeta’, ‘poetare’ e sinonimi.  Studio semantico su Dante e la poesia duecentesca”, in Studi di lessicografia italiana, 1986, VIII, p. 189.

48) Costanzo Di Girolamo, Teoria e prassi della versificazione, cit., pp. 104-105 nota 37.

49) Ivi, p. 87.

50) Biordo Brugnoli, Le satire di Jacopone da Todi: ricostituite nella loro più probabile lezione originaria, Olschki, 1914, p. CIX.

51) Alessandro D’Ancona, “Jacopone da Todi. Il Giullare di Dio del secolo XIII”, in Studj sulla letteratura italiana de’ primi secoli, Ancona, Morelli, 1884,  pp. 87-88.

52) Cfr. Le poesie spirituali del Beato Iacopone da Todi frate minore. Con le Scolie et Annotationi di Frate Fancesco Tresatti da Lugnano, Minor Osservante, In Venetia, Appresso Niccolò Misserini, MDCXII, Libro I, Satira I, p. 4.

53) Franco Mancini, Laude, cit. p. XIV.

54) Barbara Bargagli Stoffi-Mülethaler,  ‘Poeta’, ‘poetare’ e sinonimi …, cit., p. 168.

55) Andreae Semperii Valentini Alcodiani, Doctoris Medici, Methodus Oratoria, Valentiae, Ex Typographia Ioannis Mey, MDLXVIII, pp. 53-54. Molto preciso, e per certi versi spassoso, fu l’intervento del Crescimbeni, il quale fece una distinzione netta tra il ritmo volgare (rima), “come dice Beda”, e quello dei latini, spiegato con una punta d’ironia da Quintiliano: “Basterà qui per ultimo l’osservare, spiegava il Crescimbeni, che questa parola Rhythmus, benché da essa derivi la nostra volgare Rima, non però sempre significa versi rimati […] Quintiliano, lib. 9. cap. 4. Inst. Orat. Rhythmi id est numero spatio temporum constant … [Quintiliano] disse temporum non syllabarum, perché a’ suoi tempi si distinguevano ancora colla pronunzia le lunghe dalle brevi, come nello stesso luogo egli asserisce: Longam esse duorum temporum, brevem unius, etiam pueri sciunt” . Cioè, che “la lunga è fatta di due tempi, la breve di uno: lo sanno persino i ragazzini” (Dell’Istoria della volgar poesia scritta da Giovan Mario Crescimbeni, In Venetia, MDCCXXXI,  p. 95).

56) L’Ercolano, Dialogo di Messer Benedetto Varchi, nel quale si ragiona delle lingue, ed in particolare della Toscana e della Fiorentina, Milano, 1804, Vol. I, p. 273.

57) “In morte di Fra Ranaldo” in Le poesie spirituali del B. Iacopone da Todi Frate Minore, Con le Scholie, et Annotationi di Fra Francesco Tresatti da Lugnano, Minor osservante della provincia di S. Francesco, In Venetia, Appresso Nicolò Misserini, MDCVVII [1617],  p. 72 nota 8.

58) Le origini della lingua italiana compilate dal S.re Egidio Menagio, Gentiluomo francese, in Geneva, Appresso Giovani Antonio Chouët, MDCLXXXV [1685] p. 399. “ Questo, scriveva Mario Equicola,  diede origine al materno dire in rithmi, se non m’inganno: ch’al presente con corrotto vocabolo rima si chiama” (Libro di natura d’amore di Mario Equicola, In Vinegia, Appresso Gabriel Giolito De Ferrari, MDLIIII, p. 10).

59) Paul Zumthor, Langue, text, énigme, Paris, Editions de Seuil, 1975, p. 153.

60) Ivi, p. 129.

61) D’Arco Silvio Avalle, “Dalla metrica alla ritmica”, in La produzione del testo, a cura di Guglielmo Cavallo, Claudio Leonardi, Enrico Menestò, Salerno, 1992, p. 432 e p. 467.

62) Zibaldone Da Canal. Manoscritto Mercantile Del Sec. XIV,  a cura Di Alfredo Stussi, Venezia, 1967, p. 108.

63 ) Barbara Bargagli Stoffi-Mülethaler,  ‘Poeta’, ‘poetare’ e sinonimi …, cit., p. 94, p. 170, e pp. 101-108.

64) Ivi, p. 189.

65) Paul Zumthor, Langue, text, énigme, cit.,  p. 136.

66) Marcello Ciccuto, “Da più a uno face un sollegismo” in Il restauro dell’ ‘Intelligenza’ e altri studi dugenteschi, Giardini, 1985, p. 31.

67) Aristoteles Latinus, III. 1-4. Analytica Priora. Edidit  Laurentius  Minio-Paluello, E.J. Brill, Leiden, 1962, p. 427.

68) Michele Barbi (a cura di), “De Vulgari Eloquentia”, II, XIII, in Dante, Tutte le opere, a cura di Luigi Blasucci, Firenze, Sansoni, 1965, pp. 243-244. “Come giustamente ricorda Baldelli, scrive Costanzo Di Girolamo, ‘per Dante la rima è naturalmente inerente al verso, tanto da aver determinato il noto scambio semantico rima/poesia, verso. La cultura volgare in area geografica sia di Dante, sia a lui anteriore, non conosce poesia cui la rima non sia assolutamente essenziale’” (pp. 68-69). “La rima è l’unico ‘segnale’ che marca il passaggio da una stanza all’altra, o che scandisce, all’interno della stanza, periodi strofici minori”  (p. 67). Infine, “sulla sillaba tonica della parola in rima cade l’ultimo ictus del metrema, l’unico ictus, si può dire, assolutamente inamovibile, per essere quello che determina, prima di ogni altro, la regolarità e il tipo stesso del verso” ( p. 69).

69) Paola Dardano, “Contatti tra le lingue nel mondo mediterraneo antico. I verbi in –issare/-izare del latino”, in Circolazioni linguistiche e culturali nello spazio mediterraneo, a cura di Vincenzo Orioles e Fiorenzo Toso, Università degli Studi di Udine. Centro internazionale sul plurilinguismo, Recco-Genova, Le Mani, 2008, p. 56.

70) “Dialoghi di Aniceto Nemesio”, in Raccolta di composizioni diverse sopra alcune controversie letterarie, 1761, Tomo I,  p. 349.

71) Cfr. P. Dardano, Contatti …, cit.,  Appendice, pp. 60-61.

72) Marian Papahagi, Una lezione di logica nel Duecento …, cit., p. 21.

73) Ibidem.

74) Carlo Paolazzi, La maniera mutata. ‘Il Dolce Stil Novo’ tra Scrittura e ‘Ars Poetica’, Milano, Vita e Pensiero, 1998, p. 141 e nota 91.

75) Ilaria Torzi, Ratio et Usus. Dibattiti antichi sulla dottrina delle figure, Milano, Vita e Pensiero, 2000, p. 49 nota 139.

76) Ivi, p. 42.

77) Ivi, pp. 34-35.

78) Ivi, p. 24.

79) Institutionum Philosophicarum … auctore Fr. Emmanuele Bernardo de Ribera, Salmanticae, MDCCLIV, Tomus Primus, p. 367.

80) Indurare come persistere è accolto da E. De Ferri (G. Boccaccio, Il Filocolo, a cura di E. De Ferri, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1921, p. 221 nota 1”: “Deh se tu se’ uomo come sono gli altri, giovino tanti conforti quanti noi ti doniamo, e vaglia il mostrarti la verità come noi mostriamo, e non indurare pure sopra il tuo non vero parere” (in nota, indurare= persistere).

81) Ireneo Sanesi, Recensione a Le Rime di Guido Cavalcanti, a cura di Ercole Rivalta, Bologna, Zanichelli, 1902, in Rassegna bibliografica della letteratura italiana, Pisa, Spoerri, 1904, p. 20.

82) M. Fabii Quintiliani De Institutione oratoria, Recensuit Georg. Ludovicus Spalding, Lipsiae, 1808, Volumen III,  Liber VIII, 6, 59, pp. 333-334.

83) Henri de Lubac, Esegesi medievale,  Milano, Jaca Book, 2006, Vol. II, Parte I,  p. 139.

84) Paolo de Paolis, “Cicerone nei grammatici tardoantichi e altomedievali”, in Cicerone nel medioevo. Atti dell’XI Colloquium Tullianum. Cassino-Montecassino, 26-28 aprile 1999,  Roma, Centro di studi ciceroniani, 2000, p. 51.

85) Remigio Sabbadini, Storia e critica di testi latini, Catania, Battiato, 1914, p. 382.

86) M. Fabii Quintiliani Institutionis Oratoriae Libri Duodecim, Recognovit … M. Winterbottom, Tomus II, Libri VII-XII, New York, Oxford University Press, 1970, p. VI.

87) Per puro sfizio da me visionato nella Teca digitale della Biblioteca Medicea Laurenziana [identificatore IT:FI0100 Plutei 46.07. Segnatura Plut. 46.7].

88) Carta 122 v.

89) M. Fabii Quintiliani Institutionis Oratoriae Libri Duodecim, Recognovit … M. Winterbottom, cit., p. 475, e pp. V-VI.

86) Michael Winterbottom, Problems in Quintilian, University of London, Institute of Classical Studies, Bullettin Supplement no. 25, 1970, p. 6 nota 4.

90) Ibidem.

91) M. Fabi Quintiliani Institutionis Oratoriae Libri Duodecim, Recensuit Carolus Halm, Lipsiae, in Aedibus  B. G. Teubneri, MDCCCLIXI, p. 110 nota 5.

92) Cfr. Ernest Gallo, The ‘Poetria Nova’ and its Sources in Early Rhetorical Doctrine,  Le Hague-Paris, Mouton,  Appendice,  p. 225. Cfr. anche The Institutio Oratoria of Quintilian.  With an English Translation by Harold Edgeworth Butler, London: William Heinemann, New York: G.P. Putnam’s Sons, MCMXX, Vol. I,   p. XII. La lezione μυκτηρισμóς  è nel Book VIII. VI. 57-61,   Vol. III, pp. 334-335: “this is a mockery under the thinnest disguises”.

93) “Flavii Sosipatri Charisii Artis Grammaticae Libri III. Ex Charisii Arte Grammatica Excerpta”, in Grammatici Latini. Ex Recensione Henrici Keilii, Lipsiae, Praefatio di Frederick Ritscheil,  In Aedibus G. B. Trubneri, MDCCCLVII, Vol. I,  p. 284 e p. 4.

94) Robert Maltby, “Evidence for Late and Colloquial Latin in the sections de barbarismis et soloecismis of the Grammatici Latini”, in Latin Vulgar Latin Tardif X, Actes du Xe colloque international sur le latin vulgar et tardif, Bergamo, 5-9 septembre 2012, Tome III, Textes et Contextes, p. 926.

95) Mycterismos (mictirismo), dice Dilwyn Knox, “was ironia indicated by a gesture of the nose, hand or mouth” . E ancora: “Alex. De  Figuris 2.23.8  lists μυκτηρισμός (‘turning  up  the  nose’,  ‘sneering’ [= riso beffardo] )   as  one  of  the  four ‘ironies’. Quint. Inst. 8.6.59 defines mycterismos as dissimulatus quidem sed non latens derisus; cf. A.G.9.188.5 Σωκρατικῷ μυκτῆρι (‘Socratic  irony’)”. Cfr. Dilwyn Knox, Ironia. Medieval and Reinaissance Ideas on Irony, New York, The Trustees of Columbia University, 1989, p. 156 nota 49.

96) Alexandri Sophistae De Figuris Sententiarum ac Elocutionum, Natale de Comitibus Veneto Interprete, Venetiis, Apud Sanctum Guerrinum, MDLVII, p. 19.

97) Joan. Baptistae Bernardi Patricij Veneti, Thesaurus Rhetoricae, Venetiis, MDXCIX, Apud Haeredes Melchioris Selsae, p. 90.

98) Véronique Montagne, « Douceur et ironie à la Renaissance : à propos d’une analyse de Jean Sturm »,  in Réforme, Humanisme, Renaissance, 2012, n°74, 2012, pp. 36-37.

99) Recensione a Camillo Enlart, “La satira dei costumi nell’iconografia del Medio Evo”, in Rivista delle riviste, in  Rivista popolare di politica, lettere e scienze sociali, Napoli, Tipografia tiberina, 1910, p. 25.

100) Barbara del Giovane, Seneca, la diatriba e la ricerca di una morale austera, Firenze University Press, 2015, p. 24.

101) Jacopo Mazzoni, “De’ Tropi”, in Raccolta degli autori del ben parlare per secolari e religiosi, Opere Diverse, Venezia, 1643,  Parte Seconda. Del barbarismo, e solecismo, dei Tropi, e delle Figure, et altre virtù, et vitii del parlare, p. 84.

102) Ilaria Torzi, Ratio et Usus, cit., p. 46.

103) Barbara del Giovane, Seneca, la diatriba e la ricerca …, cit. p. 263 nota 45.

104) Ivi, p. 25 e note.

105) Lausberg, Elementi di retorica, cit., p. 76.

106) Ploutarchou … ta Ethika. Plutarchi Chaeronensis Moralia, Graeca emendavit …Daniel Wyttenbach, Oxonii, E Typhographeo Clarendoniano, MDCCCX, Tomus VI, Pars I,  p. 466.

107) Lausberg, Elementi di retorica, cit.,  p. 75, paragrafo 118.

108) Ivi, p. 237.

109) Ivi, p. 176.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.