Orazio e il “perfidus caupo”

caupona osteria

 

 

 

 

A volte, come si suol dire, il tempo è galantuomo, e, sempre come si dice, con il tempo la verità, prima o poi, “dovrebbe” venire  a galla. Questa premessa  “sentenziosa” mi serve più che altro per rendere i dovuti meriti all’avvocato Carlo Fea, il quale, nel lontano 1785, lavorando sui manoscritti chigiani, sarebbe  giunto alla conclusione che il famoso passo di Orazio che accennava ad un “perfidus caupo”, un oste pieno di perfidie, era una lezione assolutamente sbagliata e da emendare con una nuova lezione che egli aveva ricavato da un codice chigiano.

L’avvocato Fea pubblicò i risultati della sua ricerca, ma, a onor del vero, essi furono recepiti sì con una qualche curiosità,  ma anche con altrettanta  freddezza da (molti) eruditi suoi contemporanei, i quali, pur riconoscendo che il passo era (forse) da emendare, preferirono altre lezioni che ebbero maggiore fortuna. In generale, comunque, possiamo affermare che quasi  tutti gli editori di Orazio hanno mantenuto indefessamente fede alla tradizione, accettando, quasi in toto la lezione “perfidus caupo”, lectio che anche oggi sopravvive tranquillamente in pressoché  tutte le edizioni delle Satire di Orazio, anche perché è un’immagine stilisticamente molto indovinata ed efficace:

“Ille gravem duro terrarn qui vertit aratro/ Perfidus hic caupo , miles nautaeque per omne/ Audaces mare qui currunt hac mente laborem/ Sese ferre senes ut in otia tuta recedant  etc.” (Sat. 1.1.29)

Vediamo ora come l’avvocato Fea, che per anni s’era sbracciato a dire che   “quel”  caupo “indegno” doveva essere corretto,  giunse alle sue conclusioni.   Caupo fu emendato da Fea  con campo; l’errore, secondo l’erudito settecentesco, derivava dal fatto che molto spesso, nei manoscritti, la m era trasformata in una n. L’idea era venuta a Carlo Fea fin da quando aveva commentato il testo di alcune lapidi in varie località intorno a Roma nella Villa di Plinio:

“ACILI GLABRION INPERATV ARAM FECIT DOMINAE .  E’ notabile l’ortografia del N avanti al P che si trova nelle lapidi e nei mss. de’ buoni tempi come è stato osservato,  e che a me ha servito  di aiuto a supporre scritto canpo invece di caupo nel disperato verso di Orazio ‘Perfidus  caupo miles’,  onde ho emendato  ‘Praefidus campo miles’” (1).

In seguito, l’avvocato Fea aggiunse:

“L’acutissimo e non sempre giusto Bentlejo non ha veduto neo in questi versi. i Varj de’ moderni critici hanno procurato di bandire quel caupo indegno ma sostituendovi voci  anche più indegne Un altro ms. Chigiano ha invece campo. Leggendo con esso,  ‘perfidus’ o  ‘praefidus’,  per l’abbreviatura del ‘p’  ‘hic campo miles;  nautaeque’,  si può desiderare una lezione più chiara e più indubitata?  Campus è il campo di battaglia che qui da Orazio è nominato per il luogo del maggior rischio,  o preso la milizia, o tutta la vita militare in esercizio, a cui suppone assiduo e fedelissimo il soldato per il giuramento. In tal  guisa, il soldato ha pure il suo epiteto di ‘fedelissimo’, e  il luogo,  in cui mette a rischio la vita per fare qualche guadagno per la vecchiaja,  come hanno amendue queste cose  l’agricoltore e il marinajo. La vita,  ossia il mestiere di queste persone dagli antichi soleva portarsi come in proverbio per esprimere i tre generi di vita i più faticosi e come rilevo da Luciano altrimenti dirò ch’egli  ha avuto in mente questi versi d’Orazio quando introdusse un giovine a ringraziare Iddio che non lo avesse  destinato ad alcuno di essi […] E’ facile il capire che la voce caupo  è forse nata dall’ortografia usata anche ne’ buoni tempi antichi da molti,  di mettere cioè la N avanti al P invece della M,  e quindi CANPO invece di CAMPO o campo in lettere minuscole con differenza piccolissima dalla V e u,  come provai con molti esempi” (2).

Nonostante tutti gli sforzi eruditi dell’avvocato Fea, la lezione che andò per la maggiore fu quella che volle, al posto del “perfidus” oste, o caupo,  un  altrettanto “perfidus cautor”, ovvero un perfido “legista”. Altri aggiunsero altre congetture, che però furono inventariate in nota, e non ebbero particolare presa sugli studiosi di Orazio.

Uno tra i più entusiasti  fautori di cautor (legista)    fu lo studioso italiano  C. Massucco, il quale sentenziò:

“ ‘Perfidus hic caupo’.  Tutti gli interpreti hanno fin preso caupo unicamente per tavernajo; Sanadon fa lo stesso, avvertendo soltanto che talvolta se ne dà il significato anche ai mercatanti , venditori all’ingrosso,  secondo quelle espressioni  ‘caupones patagiarii’,  ‘caupones intigiarii’ etc.,  i primi de quali erano venditori  di mode,  ossia di ornamenti donneschi,  e  di camicie.  Anch’io era in questa opinione, sebbene  non vedessi il motivo per cui Orazio,  ritenuto l’agricoltore, il soldato,  il navigante,  cambiato mi avesse in taverniere il giureconsulto […]  L’eruditissimo signor cavaliere Lamberti nella scorsa estate si è degnato d’ instruirmi su questo punto assai bene mercè la somma sua cognizione e la indefessa sua pratica della lingua Greca.  Mi ha egli fatto vedere come il nome caupo  era tirato dal Greco,  ed appropriavasi in Greco e talora anche in Latino non ai soli tavernieri, non ai soli venditori di mode ec., ma eziandio ai  legisti” (3). A dire il vero, vari commentatori, come l’Orelli, per esempio, si meravigliarono molto del fatto che “sic et simpliciter cauponem pro  iureconsulto dicere possis” [ da un momento all’altro un oste possa essere trasformato in un legista]  (4) .

Comunque sia,  il  perfido nonché furfante caupo,  s’era, quasi  per magia, trasformato nel più elegante “legista”, che, però, sempre “perfidus” rimaneva.  L’avvocato Fea, arrabbiatissimo, rifiutò sia l’ “oste” che il “legista”, che non mettono minimamente a rischio la loro vita, come il mercante o il soldato. “Non  il giureconlulto e non l’oste”, obiettò dunque Fea, dopo aver di nuovo ribadito con estrema fermezza la correttezza della sua interpretazione: “ Campo dunque è la vera lezione”, tuonava severo Fea (5).

In effetti Fea non avrebbe poi  tutti i torti, perché  i due “perfidi”,   l’ oste  e il legista, in un contesto che sembrerebbe rimandare a gente laboriosa e che si spacca la schiena tutti giorni, sembrerebbero stonare fortissimamente. Orazio, in buona sostanza, secondo Fea,  s’era sbizzarrito in una “panoramica” a 360 gradi su quelli che, con il loro coraggio, si guadagnavano il pane con i mestieri più vari, ma di quelli che però richiedevano una certa “tempra”, e un’indubbia buona dose di fatica.  “Sic stantibus rebus”, oltre  al caupo, Fea  mise fuori uso anche l’ ormai inservibile perfidus, sostituito con il più nobile praefidus (fedelissimo), che andava riferito a “miles”. Dunque Fea aveva emendato in questo modo:

“Ille gravem duro terrarn qui vertit aratro/ Praefidus hic campo  miles nautaeque per omne/ Audaces mare qui currunt hac mente laborem/ Sese ferre senes ut in otia tuta recedant  etc.”

Tradotto, il testo emedato da Fea suonerebbe così: “Ecco qua l’agricoltore, che volge e rivolge la terra con il pesante aratro.  Ecco  il veterano, sempre fedelissimo sul campo (di battaglia), ed  ecco ancora  gli audaci marinai che sfidano impavidi  il mare. E tutti quanti, dopo tante fatiche,  puntano ad andare in pensione, per godersi  una sicura vecchiaia”.

Il risultato non è poi tanto malvagio: solo che, contro cotanto ingegno,  stavano in agguato  “ragioni metriche” e qualcosina d’altro, come vedremo. Infatti  E. Forcellini aveva sottolineato:

“PRAEFĪDUS –a-um- Adiect. a ‘prae’ et ‘ fidus’,  ‘valde fidus’,  ‘fidelissimus’. Nisi vetaret quantitas paenoltimae quae longa prefecto esse debet admittenda esset probabilis coniectura Caroli Fea qui ita edidit et multis firmare rationibus studuit illum locum”. [Praefidus, costituito da prae e fidus, ‘molto fedele’, ‘fedelissimo’.  Se non fosse per la quantità della penultima, che deve essere lungala congettura di Carlo Fea, che ha studiato ed emendato  il passo  portando ottime ragioni, potrebbe essere probabile”] (6).

Tiranniche “ragioni metriche” s’opponevano pertanto all’ “emendatio” del’ avvocato Fea. Ma non solo quelle: convinto sostenitore di caupo fu  anche  il Rev. A.J. Maclaine, che se la sbrigò alquanto “velociter”:

“ There is no reason therefore to suspect the reading  ‘perfidus hic caupo’ which has caused the critics a vast deal of trouble ever since Markland first suggested that it was wrong Before that the commentators were all satisfied to take Horace as they found him Orelli has given nine different conjectural readings not one of which seems to me to have any merit Fea has found in a few MSS the word campo for caupo but that is not surprising. There are no other variations in the MSS or Scholiasts and this gives no sense at all. ‘Nauta’ and ‘mercator’ here are the same person the trader navigating his own ship” (7).

Per farla breve, secondo il Rev. A.J. Maclaine, “Non ci sarebbe pertanto alcun motivo di sospettare inesatta la lezione perfidus hic caupo,  che ha procurato alla critica soltanto  una montagna  di guai,  a partire da  Markland, che per primo ipotizzò  che la lezione fosse sbagliata.  Prima di lui,  tutti i  commentatori erano pienamente  soddisfatti di prendere il verso oraziano così come lo avevano trovato.  Orelli diede ben nove diverse letture congetturali,  di cui nessuna mi sembra avere alcun merito. Fea ha trovato, in una manciata di manoscritti,  la parola  campo per caupo,  ma la cosa non costituisce una sorpresa per gli studiosi.  Non ci sono altre varianti nella tradizione manoscritta, o negli  scoliasti,  e tutto questo  è completamente privo di senso.  ‘Nauta’  e ‘mercator’  sono la stessa persona, cioè a dire  il commerciante che naviga con la sua nave”.

Riguardo a “caupo” e alle sue “varianti”, il Rev. A.J. Maclaine affermò che la cosa non sorprendeva più di tanto gli esperti, per cui Fea, in fondo, non aveva scoperto granché.  D’accordo, Fea forse non aveva scoperto nulla di così strepitoso, ma, “in quel contesto”, l’ “emendatio” di Fea  era tutt’altro che peregrina e priva di effetti, come dire, “pratici”. Quanto poi alla notazione secondo cui  “tutti” i commentatori erano stati felici e contenti “al quia” di dantesca memoria, forse il  Rev. A.J. Maclaine avrebbe dovuto ricordare che Dante, con quel termine,  si riferiva al “supernaturale” e non alle cose mondane, sempre soggette a mutamenti.  Probabilmente il  Rev. A.J. Maclaine non aveva tutti i torti, ma snobbare a piè pari, con argomenti  superficiali,  interventi  come quelli di Fea, di  Th. Obbarius  e Johann Apitz (Ioannes Apitzius ), suona indubbiamente spregiativo del lavoro di tanti validi studiosi,  che avevano proposto varie ed interessanti soluzioni,  anche se esse, agli occhi del Rev. A.J. Maclaine,  erano apparse prive di “alcun merito” e addirittura “prive di senso” . Ma su di esse, e in particolare sulle congetture di Johann Apitz,  torneremo tra breve.

Come il Caupo diventò Mercator

Nel frattempo ci occuperemo di  quanti difesero  la classica lezione caupo con argomenti storico-linguistici tutto sommato abbastanza dubbi. Ci fu  chi fece notare, per esempio, che il termine caupo possiede  molte sfumature, per cui esso talvolta sarebbe andato  ad indicare il piccolo commerciante al dettaglio, che si spostava  qua e là con la sua merce.  “Ergo” essendo questi soggetto a fatiche e pericoli,  egli s’inseriva perfettamente nell’elenco di Orazio, fatto di gente esposta ai pericoli e a forti disagi: il nauta-mercator (grosso commerciante),  il miles,  il contadino, e poi, stranamente, ancora un caupo-mercante. Per giungere a tanto,  il caupo sarebbe stato assimilato  al kápelos dei greci, piccolo commerciante “vagante”. Però questa interpretazione di caupo, che,  da semplice “oste” , si trasforma in un kápelos convince poco o niente, anche perché ci sono prove  contrarie molto accreditate.  Già alla metà del XIX secolo, in un suo commento alle Satire di Orazio,  Luigi Lamberti scriveva:

“Ora paragonando insieme i prenarrati tre passi,  una cosa può sembrare assai difficile da comprendere,  cioè per qual motivo, essendosi  nei primi due mentovata ciascuna delle classi, nell’ ultimo poi non se ne mettano in mezzo che  tre,  e in luogo del giureconsulto si ponga l’ostiero [=oste].  Nessuno tra i commentatori di Orazio ha sparso luce abbastanza su questo dubbio,  e da essi si osserva che la voce caupo è usata quivi in senso figurato. Il Wieland medesimo, interprete, più che altri,  dottissimo del Venosino,  segui l’opinione dell’ab. Balteux,  e così lasciò scritto nelle sue note: ‘ Io qui, col Batteux, ho tradotto il vocabolo caupo con quel  di mercatante,  benché esso per l’ordinario significhi l’ ostiero [=oste]. Ma che quella voce abbia ancora l’altro significato si riconosce dalla sua derivata cauponari,  la quale in un passo citato da Tullio,  e tratto da una tragedia di Ennio,  è adoperata evidentemente nel senso di trafficareesercitar mercatura”. Wieland in effetti  si era rifatto agli studi di Charles Batteux, variamente ripresi da vari studiosi” (8):

Caupo:  Batteux  l think is right in translating this word as equivalent to retail trader, dealer in small wares, though it is usually here made to signify a vintner,  and even a lawyer. That it has the first signification,  is evident from its derivative ‘cauponari ‘, which in a passage quoted by Cicero (De  Offic., lib. I,  cap. 12) from a tragedy of Ennius,  incontrovertibly means to tradeto carry on traffic” [  Penso che Batteux sia nel giusto  traducendo  questa parola come equivalente di commerciante al dettaglio, piccolo rivenditore di merci, anche se generalmente  il termine indicava un commerciante di vino e un avvocato. Che questo fosse  il suo primitivo   significato, è evidente dal suo derivato,  cauponari, che, in un passo  citato da Cicerone (De off., lib I, cap. 12) da una tragedia di Ennio, significa senza alcun dubbio commerciare, occuparsi di commercio” (9).

“Questa interpretazione non ci par giusta, proseguiva L. Lamberti.  Se la  voce caupo corrispondesse nell’allegato luogo a  mercatantela menzione di quella classe sarebbe inutilmente ripetuta;   poiché il vocabolo nautae sicuramente a quel medesimo si riferisce,  ed esprime il mercator,  che s’incontra nel cominciar della satira e che colà è pure accompagnalo dalla idea di navigazione.  Che poi il mercator,  secondo i Latini e nel costante linguaggio di Orazio fosse propriamente chi trasportava le merci da un luogo ad altro,  si raccoglie da vari altri passi di Orazio stesso e massimamente da quello della Satira quarta del libro primo”.

Infatti,  U. E. Paoli autorevolmente chiosò:

Institor è nel commercio dei Romani la figura più affine al kàpelos greco, giacché caupo, che non ha con kápelos neanche l’identità di etimo, ha senso ristretto e nel significato comune e giuridico indica solo l’esercente di un’osteria […] La figura del kápelos [fu] confusa a torto con quella del caupo” (10). U. E. Paoli aveva perfettamente ragione, anche (e soprattutto) perché l’identificazione caupo-kápelos cozza contro la cronologia. Infatti, D. Vottero osserva:

kápelos era originariamente la definizione in uso per un piccolo rivenditore al dettaglio, soprattutto di generi alimentari (HESYCHION, Lexicon K 707 [ II 408 SCHMIDT]): a partire dal periodo tardo-antico il termine finì con l’essere usato in primo luogo per designare l’oste ( D. CHANTRAINE, Dictionnaire étymologyque de la langue greque, Paris, 1964, I, 494)” (11). Di rincalzo, anche T. Kleberg  affermò le stesse cose: “Si nous passons maintenant à l’examen des significations  des dérivées de caupo, nous verrons de nouveau confirmé le fait que ce dernier vocable signifie pratiquement  toujours l’ ‘hôtelier’ ou ‘cabaretier’ et que le sens de ‘detaillant’ est par contre très tardif » [  Se ci volgiamo ora a considerazione i vari significati di caupo , vedremo di nuovo confermato il fatto che questa ultima parola significa quasi sempre  oste o Cabaretier e che il significato di rivenditore è molto tardo ]  (12).

Ora, datosi che Orazio non visse nel tardo-antico, se egli, putacaso,  avesse mai  scritto caupo, l’avrebbe  comunque inteso  come un semplice “oste”, e non con altri presunti significati: per cui la tesi del caupo-mercator-kápelos non regge al vaglio della storia.

 

Il Caupo e altre decine di “sostituti

 

Torniamo ora alle numerose  congetture prese in considerazione dai più dotti editori di Orazio.   L’Orelli, dal canto suo, indicava con acribia tutte le possibili varianti: “ ‘Providus hic cautor’ (Shrader), ‘Perfidus hic cautor’ (Porson), ‘Causidicus vafer hic’ (Markland), ‘Perditus hic causis’ (Müller), ‘Praefidus hic campo (Fea), ‘Fervidus in campo’ (Bothe), ‘Pernoctans campo’ (Shmidt), ‘Pervicus hic campo’ (Obbarius)” (13).

Nell’edizione critica curata da O. Keller e A. Holder, al passo dedicato al caupo, essi passavano in rassegna tutti i manoscritti tràditi nonché le più svariate congetture:

“[Bruxell. 10063 a.  1. m. Valentian. 390 Vaiicani G Palatinus A1 DF Chisianus B ap. Feam; caupo Reginens., Zulichem. schol. Tacent  alii alia coni. : ‘causidicus uafer hic’,  ‘callidus (prouidus, perfidus) hic cautor’, ‘responsi hic caupo’, ‘peruigil  (praefidus, peruicus, perficus, perfidus) hic campo’ , ‘feruidus in campo miles’. B]” (14).

Come si può notare, all’elenco di Orelli, Keller e A. Holder aggiungevano un’altra congettura, “perficus”, la quale era poi ripresa da  Friedrich August Eckstein  con ulteriori rimandi:

“ Hieron. de Bosch in praef. Carmin. P. XXII. ‘pervigil hic campo miles’.  Fea 🙂 ‘praefidus hic campo miles’ i.e. ‘fidissimus’ vel novam vocem fingens ille metro repugnantem ; Bothius et Reisigius : ‘fervidus in campo miles’ ; Guil. Kieserus et Obbarius  ‘pervicus in campo miles’  (priscum vocabulum pro pervicaci) hic campo miles’. Apitzius : perficus (novum vocabulum) (15).

Il “novum vocabulum” (“perficus”) fu  congettura di Johann Apitz, latinamente Ioannes Apitzius,  che era tutt’altro che uno sprovveduto,  il quale conosceva bene l’ “emendatio” congetturata dall’avvocato Fea, verso il quale ebbe, nel contesto del discorso, parole di stima e di approvazione:

“Cur insuper solus miles epitheto suo careat,  ceteris ordinibus non inornatis? His aliisque de causis non dubitamus quin nomen ‘caupo’ suppositicium et ‘campo’,  quod plures Feae Cdd. servarunt sincerum sit. Aeque autem adiectivum ‘perfidus’ falsum est, siquidem perfidiae nota ab hoc loco ubi de solo disseritur labore, omnino abhorret. Quale epitheton ab Horatio profectum sit,  epithetis agricolae et mercatoris commonstratur scilicet tale,  quo miles dictus est laboriosus. Quod quum plurimi vv. dd. non attenderent, permultae coniecturae alienissimae expromtae sunt. Omnium maxime laudabilis est Obbarii ‘pervicus’. Nescio vero an poeta scripserit perficus  hic campo miles ”  (16).

Traducendo, l’ottimo Apitzius si domandò: “E perché mai soltanto il ‘miles’ deve restare privo del suo aggettivo? Non ho il minimo dubbio che il  caupo dei manoscritti studiati da Fea debba essere emendato e sostituito con campo. Anche perfidus è da espungere, in un contesto dove si parla solo di gente che fatica a campare la vita. Anche il miles conduce una vita aspra e faticosa, insieme con il mercante e il contadino. Su questo passo sono state date interpretazioni che, a mio parere, sono molto distanti dalla verità. Fra tutte le soluzioni possibili, quella di Obbario, che ha ipotizzato un ‘pervicus’,  mi sembra senz’altro la migliore. Tuttavia,  si potrebbe pensare che il poeta avesse scritto ‘perficus hic campo miles’”.

Come si vede, il dotto Apitzius s’era convinto che il campo di Fea fosse  degno d’essere arato, lavorando, però,  sul Praefidus dello stesso Fea, e ipotizzando un “perfido” perficus.    In  questo modo,    Apitzius congetturò, proprio  accanto al già problematico caupo-campo,  un’altra  parola “ingannatrice” non solo per l’occhio, ma anche per il senso. “Perficus”,  in effetti,  si sarebbe potuto prestare  facilmente all’errore “per l’occhio”. Che il copista potesse aver  letto “perfidus”  al posto di “perficus” ,  con la “c” (lectio difficilior); e nel contempo “caupo” al posto di “campo” sarebbe, a ben guardare,  se non una certezza, almeno una grossa potenziale possibilità, anche perché (soprattutto perché) vicino a “perficus” c’era il famoso ‘canpo’-‘caupo”: il copista, una volta letto “caupo” (oste), avrebbe  subito personalizzato “anche” l’aggettivo, pensando  non a “perficus”, bensì alla lezione più facile (perfidus), perché il “caupo” è, quasi per definizione, un “perfidus” furfante, sempre pronto alla truffa.  Cosicché la frittata era fatta.

“Perficus” tra l’altro  è un “arcaismo”, che, per significato, s’imparenta con “pertinax” e “pervicax”, ognuno dei quali, unito a “miles”, forma un binomio inscindibile: l’espressione “pertinax miles” ( la più usata) oppure “pervicax miles” sono un “topos” linguistico che ognuno è in grado di verificare con la massima facilità. Orazio non era certo un poeta arcaizzante, però ciò non significa che in lui non vi fossero forme di tal genere, anzi, è proprio  il contrario. Comunque, se si va sul poderoso Forcellini, alla voce “perficus”, troveremo scritto:

“ Idem ac pervicax apud Veteres” [Simile a “pervicax” presso gli antichi scrittori]. E, un po’ più sopra, troveremo che “pervicax”, “In bonam partem pro constanti firmo, inflexibile”. Poi “pervicax” era usato in taluni casi al posto di “pertinax”, molto tenace,  (“valde tenax”), “fortiter retinens in fine” (Horat. I. I. od. 9). “Nam pervicax pro pertinax aperte est in illo Senec. In Herc. Furens, v. 501”.  E, infine, troviamo anche l’espressione: “Vetus miles adversus temerarios impetus pertinax” [Vecchio soldato, sempre fermo e pugnace  negli scontri più temerari] (E. Forcellini, “ad voces”).

Il testo, emendato da Apitzius, suonerebbe pertanto in questi termini:

“ Ille gravem duro terram qui vertit aratro/ Perficus hic campo miles nautaeque per omne/ Audaces mare qui currunt hac mente laborem/ Sese ferre senes ut in otia tuta recedant” [ Ecco qua l’agricoltore, che volge e rivolge la terra con il pesante aratro.  Ecco  il veterano,  il vecchio soldato sempre fermo e pugnace sul campo (di battaglia); ed  ecco infine  gli audaci marinai,  che sfidano sempre il mare. E tutti quanti, dopo tante fatiche,  puntano ad andare in pensione, per godersi  una sicura vecchiaia”]

In conclusione, con questa soluzione (provvisoria),  avremmo  il “miles” con il suo  aggettivo (perficus): il che l’inserirebbe  perfettamente nel contesto, al pari dei marinai e dei contadini, che si guadagnavano il pane con fatica. E’ evidente, a questo punto, che né il “perfido oste” né l’altrettanto “perfido legista” avrebbero  più ragione di essere “ospiti” in questo verso millenario di Orazio, dove avrebbero trovato un  porto sicuro  senza “rischiare” assolutamente nulla dai marosi della storia,  e di ciò vorremmo poter  rendere  i dovuti omaggi all’avvocato Carlo Fea ed al suo estimatore, Johann Apitz .

 

  1. HORATII FLACCI SERMONUM LIBER PRIMUS SATIRA I. IN AVAROS 

Ma le cose stanno effettivamente in  questi termini?

Ho tuttavia la netta impressione che il “perfidus caupo”, uomo pien di malizie, abbia giocato un brutto tiro ai nostri probi studiosi della Satira I di Orazio, che, molto probabilmente, sprecarono  le loro energie, semplicemente perché la lezione tràdita,  “perfidus caupo”, è, quasi al cento per cento,  corretta. Gli antichi scoliasti erano molto analitici nei loro commenti, e ben poco sfuggiva al loro occhio “erudito”. In più, essi si  chiedevano la “ratio” di un’opera poetica.

Lo scoliasta recensito da Otto Keller, e segnato SCHOL. I’ V lN HOR., scrisse:

“Quae ratio, quae res facit,  ut studia diuersa laudent? Respondit auaritia (I’ f V) (17). In modo più disteso:

“ [Horatius] deridet salse stultam ac perversam rationem  avarorum  qui quamquam de sua sorte conqueruntur, nolunt tamen,  si optio detur,  suam cum aliena permutare: sed aiunt , se labore perferre et opes colligere,  ut habeant unde in senectute vivant.  At nunquam satis habent,  corradunt temere,  nec amore merentur,  atque omnem vitam trahunt miseram,  suntque in maximis opibus pauperrimi”  (18).

Quindi, Orazio se la prese con l’indole stolta e meschina degli avari, che conducono una vita miserrima, e sono poverissimi pur nelle loro grandi ricchezze. E’ pertanto evidente che l’intento di Orazio non era stato quello di esaltare le virtù dei vari “nautae”, “agricolae” e “milites”, bensì quello di fare un’ampia panoramica di tutti coloro che sono “avidi” e avari al tempo stesso, che accumulano ricchezze per la vecchiaia, ma che, per ciò, conducono una vita miserrima e piena d’inganni nei confronti di tutti.

Nella sua panoramica sugli “avari” quasi “per definizione”, Orazio inserisce “tutti”  coloro che “godevano”   fama d’esser avari, e cioè a dire, i mercanti, i grandi armatori (nautae) e i piccoli (mercatores), il soldato (miles), il legista (iuris lergumque peritus) e, infine, “dulcis in fundo”, il caupo, noto universalmente per la sua perfidia e malizia, nonché, spesso,  un lenone [“mercator usuram, caupo lenocinium”] (19),  che attirava clienti nella sua osteria. E’ evidente che, in questa prospettiva, non soltanto il perfidus caupo ci sta tutto, ma ci si potrebbe meravigliare del contrario. Anzi, il binomio nauta-caupo fu  sempre sotto stretta sorveglianza   nelle leggi romane, e anche dopo. Le leggi erano ricolme di riferimenti al possibile dolo dei “nautae” (spesso anche usurai) e dei “caupones” (lenones), con le conseguenti “actiones in factum furti et damni”, e il pretore osservava sempre con estrema accuratezza  la “responsabilità rigorosa eppure congrua del ‘nauta’ e del  ‘caupo’”  (20), appunto perché questi personaggi erano costantemente sotto osservazione, a causa dei loro reiterati imbrogli ai danni del pubblico.

Nauta et caupo et stabularios mercedem accipiunt non pro custodia sed nauta ut trajiciat vectores,  caupo ut viatores manere in caupona patiatur […]  et tamen custodiae nomine tenetur,  sicuti fullo et farcinator non pro custodia,  sed pro arte mercedem accipiunt, et tamen custodiae nomine ex locato tenentur (l,  3,  Dig. Nautaecaupones,  ec.)  Queste parole ‘custodiae nomine tenetur’ significano che le dette persone per la custodia delle cose ad esse affidate debbono impiegare non solamente la buona fede come nei casi dei depositi ordinari,  ma una cura diligente e ch’esse sono in conseguenza tenute per la colpa lieve (cod. franc. art. 1952; cod. aust. S 97°).  Secondo questi principi,  allorquando le cose date in deposito dal viaggiatore all’albergatore sono state rubate nell’ albergo ancorché il furto non fosse stato commesso dai domestici dell’ albergo medesimo,  ma da altri viaggiatori in esso alloggiati,  l’albergatore vi è responsabile perché quel furto si presume essere accaduto per difetto di cura dell’albergatore qualora questi non giustifichi essere accaduto per qualche accidente di forza maggiore” (21).

Infine, gli antichi commentatori non dimenticarono i “vizi” dei  “mercatores” e degli impavidi “nautae” che solcavano i mari, e  che essi non mancarono di bacchettare a dovere,  perché “Alia subiectio: sed dicunt multi, primo quaerendas esse pecunias, et post uirtutem. Hos dicimus contempnendos, quia mercatores sunt et uolunt, uirtutem esse post lucrum [E’ tutta gente da condannare, poiché  i  mercanti metton la virtù “dopo” il guadagno]  (22).  I mercanti ( specialmente i “nautae”) sono, sotto l’aspetto morale e delle leggi, individui da tenere sotto controllo,  alla stregua dei “caupones”, per ciò che può essere  trafugato ai passeggeri  sulle loro navi.

E ce n’è anche per gl’industriosi “agricolae”, che, da Virgilio in poi erano altresì ben conosciuti per essere “avari agricolae” (avidi di guadagno). Come ha giustamente sottolineato S. Quinn : “Another programmatic example of this at the denotative level may be found in  Georgic I: ‘illa seges demum votis respondet avari / agricolae, bis quae solem, bis frigora sensit’[ …] Where [ …]   Virgil offers his readers  not just  the ethical problem […] , but  the fact that the various kind of avaritia are a problem and create insecurity. Avari agricolae is both an interpretative and an ethical problem, and that statement is true of both life and Virgil’s text” [Un altro esempio programmatico di questo a livello denotativo,  si trova  nel verso della Georgica  I ‘illa seges demum votis respondet avari / agricolae, solem quae di bis, bis frigora sensit’  […] dove […]  Virgilio offre ai suoi lettori non solo un  problema etico , ma il fatto che i vari tipi di avaritia sono un problema  che crea  incertezza. ‘Avari agricolae’ è ad un tempo  un’interpretazione e un problema etico, e questa affermazione è vera, nella  vita come nel testo di Virgilio ] (23).

E il “miles”?

Quanto al tanto discusso “miles”, sarà stato costui anche “fervidus in campo”, e anche “pertinax” (o “pervicax”) finché si vuole, ma qualche scoliasta ne aveva messo in luce anche i non pochi lati negativi:  “contemptor legum […] Acer, superbus et contemptor Iura […] neget  legibus constringi […] Nihil sit quod non speret per arma quantum ad se spectet […] inexor,  durus,  superbus acer fortis […] Peruicax  (24).  Anche  il “miles”, in buona  sostanza, si trova nelle stesse condizioni  del  “nauta” e  del  “caupo”: cioè a dire che costui è un tipo poco raccomandabile, cosiccome la tradizione stessa lo tramanda: spregiatore delle leggi, che addirittura  si ritiene al di sopra di esse,  duro, superbo, pervicace.  A mo’ d’ulteriore glossa, potremmo altresì aggiungere che il “miles” di Orazio ben difficilmente aveva a che fare con il semplice “gregarius”, ma con uno di quei personaggi dell’esercito romano che si distinsero non soltanto per forza, coraggio e spregio delle fatiche, e che arrivavano alle meritata pensione dopo “fatiche inenarrabili”, ma anche per la durezza,  la prepotenza e la violenza che li contraddistinguevano.  Ora, il “miles” per eccellenza, che rispondeva  a tutti i requisiti (negativi)  del  “miles”  era il “dux”,  o “praefectus castrorum”, “ chosen from ex-senior centurions” [scelto fra i centurioni più anziani]. E il centurione era detto anche “miles”. “Centurio denique aut miles”:

“Above the centurions was the praefectus castrorum, or prefect of the camp. The praefectus castrorum would be a military man with many years of experience as a primus pilus. His job was to command the legion in the absence of the legate” [Sopra i centurioni  c’ era il ‘praefectus castrorum’, o prefetto degli accampamenti. Il ‘praefectus castrorum’ sarebbe stato  un militare con molti anni di esperienza come ‘primus  pilus’. Era al comando della Legione in assenza del legato ] (25). In sostanza, il “miles” era il vecchio centurione, poi diventato “dux”, cioè a dire  “praefectus castrorum”, una delle figure più leggendarie dell’esercito romano. Il “miles” era generalmente un vero e proprio “duro”, un “grizzly bear”,  rotto a tutte le fatiche e a tutte le battaglie, inesorabile con la  truppa come pochi, in virtù dei suoi lunghi anni sotto le armi.

Il più straordinario ritratto del tipico “praefectus castrorum” ce l’ha tramandato Tacito:

“Interea manipuli  ante cceptam seditionem Nauportum,  missi ob itinera et pontes et alios usus,  postquàm turbatum in castris accepere,  vexilla convellunt direptis que proximis vicis ipsoque Nauporto,  quod municipii instar erat,  retinentes centuriones inrisu et contumeliis,  postremo verberibus insectantur,  prascipue in Aufidienum Rufum praefectum castrorum  ira,  quem dereptum vehículo sarcinis gravant aguntque primo in agmine,  per ludibrium rogitantes,  an tam immensa onera tam longa itinera libenter ferret. Quippe Rufus diu manipularis,  dein centurio,  mox castris praefectus, antiquam duramque militiam revocabat, vetus operis ac laboris et eo immitior, quia toleraverat » (26).

I soldati, racconta Tacito, stanchi e spossati  per dover portare pesi per tanto tempo,  se la presero con i centurioni, e in modo particolare con Rufo, prefetto degli accampamenti. Tiratolo giù brutalmente  dal suo cocchio,  lo caricarono di roba come un asino e, schernendolo, gli chiesero  se era poi tanto  felice di portarsi  tanto peso con tanta strada da fare.  Rufo, a suo tempo soldato semplice, poi centurione e in quel momento prefetto degli accampamenti , rotto a tutte le fatiche, aveva ripristinato tra i suoi soldati l’antica e dura disciplina, e in ciò egli s’era mostrato inesorabile, perché, a suo tempo, egli stesso l’aveva patita sulla propria pelle.

Le altrettanto dure “fatiche” dell’avvocato Fea, di Johann Apitz e di tantissimi altri valenti studiosi andarono perdute per una duplice ragione: da un lato perché essi non presero in seria considerazione il fatto che la lezione perfidus caupo era presente nella stragrande maggioranza dei testimoni giunti sino a noi; dall’altro  perché essi si fermarono al solo dato linguistico, senza peraltro considerare il contesto e, soprattutto,  la “ratio”,  pur messa in vista con estrema chiarezza dagli antichi scoliasti, i quali l’avevano pur detto che la Satira I di Orazio era  in avaros, ossia contro gli avari;  e quindi volta a mettere alla berlina tutti coloro che erano universalmente ben noti per la loro conclamata “avaritia”, oppure “avidità”, che dir si voglia. In quella sua antica “panoramica” sugli avari, Orazio non avrebbe mai  potuto  passar sopra  al perfidus caupo, che, per tradizione,  era pressoché il simbolo universalmente riconosciuto dell’avidità, connessa con la più proverbiale astuzia e “perfidia”.

Perciò gli scoliasti non ci trovarono proprio nulla di strano nel  veder messo alla berlina  un “perfidus caupo”,  e nessuno di essi pensò minimamente di emendare il passo di Orazio, e,  anzi, per converso,  dal canto loro fecero di tutto per mettere sulla buona strada gli esegeti; e in forza di ciò  “omnia argumenta colligebantur”.

 

Note

 

1)      Relazione di un viaggio ad Ostia  e alla Villa di Plinio fatto dall’avvocato  Carlo Fea, Roma, 1802,  p. 13.

2)      C. Fea,  “Lettera terza al M. R. P. M. Il  P. Pier Domenico Brini dell’Ordine de’ Predicatori. Assistente  della Biblioteca Casanatense”, in Saggio di nuove illustrazioni filologico-rustiche sulle ‘Egloghe’ e ‘Georgiche’ di Virgilio, in Roma, presso il Cittadino Tommaso Pagliarini. Anno VII Republicano (sic) [1799], pp. 167-169.

3)      Opere di Orazio Flacco, tradotte in lingua italiana da C. Massucco”, Milano, 1830, Tomo IV,  p. 127.

4)      Q. Horatius Flaccus, Recensuit Io. Casp. Orellius, Turici-Londini, MDCCCXXXIII, Vol. II,  p. 7 nota.

5)      “Lettera dell’avvocato Carlo Fea all’Eminentiss. e Revirendiss.  Sig, Cardinal Stefano Borgia”, in  Miscellanea Filologica e Antiquaria dell’Avvocato Carlo Fea, Roma, MDCCLXXXX,  p. VIII.

6)      E. Forcellini, Totius Latinitatis lexicon,  [M – P], 1868, Tomus IV, p. 793.

7)      Quinti Horatii Flacci Opera Omnia, With a Commentary by the Rev. A.J. Maclaine, London, 1853, p. 328, nota 31.

8)      “Sopra un passo di Orazio”, in  Prose scelte di Luigi Lamberti, in Prose e poesie scelte di AA.VV., Milano, N. Bettoni, 1833,  pp. 467-468.

9)      Cfr. The Gentleman’s Magazine,  1809, Vol. LXXIX,  p. 708.

10)    U. E. Paoli, “Grossi e piccoli commercianti nelle liriche di Orazio”, in  Rivista di filologia e di istruzione classica, E. Loescher, 1924, n. 52,  p. 61, 52.

11)    D. Vottero,  “Note sulla lingua e lo stile delle ‘Naturales Quaestines’ di Seneca”, in  Atti dell’ Accademia delle scienze di Torino: Classe di scienze morali, storiche e filologiche, 119,  1985,  pp. 61-86,  p. 86 e nota 23.

12)    T. Kleberg,  Hôtels et cabarets dans l’Antiquité , Uppsala, 1957, p. 3.

13)    Q. Horatius FlaccusRecensuit Io. Gaspar Orellius, Berolini, MDCCCXCII, p. 7.

14)    Quinti Horatii Flacci Opera, Recenserunt O. Keller et A. Holder, Lipsiae, 1888,  p. 4 e la “varia lectio” in nota.

15)    Dr. Friedrich August Eckstein, Familiaris interpretatio primae Satirae Horatianae, Leipzig, 1865, p. 15.

16)    Coniectanea in Q. Horatii Flacci Satiras cum variis lectionibus Unius Codicis Manuscripti Bibliothecae Regiae Berolinensis, edidit Ioannes Apitzius, Phil. Dr., Berolini, MDCCCVI, p. 18.

17)    PdeudoAcris Scholia in Horatium Vetustiora. Recensuit  Otto Keller, Lipsiae, in Aedibus B.G. Teubneri, MCMIV,  p. 2.

18)    Q. Horatii Flacci Eclogae cum Scholiis Veteribus, Castigavit et notiis illustravit Guilielmus  Baxterus, Lipsiae, MDCCCXV, Horatii Flaccii Sermonum liber Primus. Satira I. In Avaros,  p. 321.

19)    Johannes II Wolf, Lectiones Memorabiles Et Reconditae (etc.), 1671, Tomus Posterior, p. 56.

20)    C. Russo Ruggeri, Studi in onore di A. Metro, Giuffré, 2009,  p. 473, nota 60.

21)    Cfr. Enciclopedia Legale, Venezia, 1813, Vol. II,  p. 241.

22)    Acronis et Porphyrionis commentarii in Q. Horatium Flacc., edidit F. Hauthal, Berolini, MDCCCLXVI [1856], Vol.  II,  p. 362.

23)    S. Quinn, Why Vergil?: A Collection of Interpretations, Bolchazy-Carducci Publishers, Inc., Wauconda, Illinois, 2000, p. 283, nota 29.

24)    Acronis et Porphyrionis Commentarii in Q. Horatium Flaccum, edidit F. Hauthal, cit.  p. 596, nota 121.

25)    Carl J. Sommer, We Look for a Kingdom: The Everyday Lives of the Early Christians, San Francisco, Ignatius Press, 2007,  p. 64.

26)    P. Cornelli Taciti Annales, edidit H. Heubner, Teubneri, 1983, Tomus  I,   p. 14 (119-122).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.