Il Padrone, di Goffredo Parise


Il Padrone, by G. Parise (Free image from Google)Parise non è più uno scrittore molto visitato dal grande pubblico, anche se, tutto sommato, gli addetti ai lavori non si sono in fondo mai dimenticati di questo nostro notevole scrittore vicentino. L’opera di Parise su cui voglio qui riflettere è Il padrone, un testo di ragguardevole portata letteraria e direi, soprattutto, sociale, e anche il romanzo con cui Parise, tra l’altro, vinse il Premio Viareggio nel 1964.

 

Il romanzo potrebbe essere inscritto entro l’alveo della cosiddetta letteratura “industriale”, di cui Ottiero Ottieni e Volponi sono un po’ i maestri  del genere. Però, con Parise c’è qualcosa in più: una riflessione profonda sugli effetti che la nostra società industriale “di massa” può provocare sull’individuo. C’è un’aura di “assurdità” e di “vuoto esistenziale” che aleggia nel “Padrone”, e la cosa fa pensare a certi scrittori stranieri, come l’americano Raymond Carter e il tedesco Michael Ende, sui quali mi riprometto di tornare. Parise dunque scriveva Il padrone all’inizio degli anni ’60; proprio nel periodo in cui si cominciava a discutere seriamente sui risvolti negativi della nostra società di massa.

 

Ricorderò, “en passant”, ma anche per inquadrare meglio il tema, quanto scriveva, per esempio, Erich Fromm in Psicoanalisi della vita quotidiana, del 1955, in cui osservava acutamente che in una società orientata pressoché esclusivamente alla produzione di “oggetti”, non esiste alcun valore all’infuori dell’oggetto stesso. Chiedendosi quali fossero questi “oggetti” ai quali l’uomo contemporaneo “vota” interamente la propria esistenza, li individuava nel “[…] guadagno, le necessità economiche, il mercato, il senso comune, l’opinione pubblica, quel che ‘si’ fa, ‘si’ pensa, ‘si’ sente […]”. Il bello, o il brutto, di tutta questa faccenda è che anche noi stiamo diventando degli “oggetti”. Nel 1959 Elémire Zolla, nel suo famoso libro “Eclissi dell’intellettuale”, notava che, di fronte alla perfezione tecnologica degli “oggetti” prodotti, l’uomo “ […]  si sente inferiore, addirittura si sente svergognato dalla loro efficienza. Non solo l’uomo vuole essere un meccanismo accanto a meccanismi, ma un meccanismo a servizio dei meccanismi; libero non è già l’uomo, ma la ‘cosa’, l’uomo diventa ‘faulty construction’ [‘costruzione difettosa’]: una macchina da raddrizzare e rendere efficiente […]”.

 

Parise scriveva Il padrone nel 1964, ed è assolutamente verosimile, dati anche i suoi contatti con l’America, che egli conoscesse molto bene quello che si andava pensando ad alti livelli sulla società industriale. Infatti nel Padrone è descritto il lento processo attraverso il quale il protagonista perde, a poco a poco, ogni traccia di umana parvenza e autonomia, fino al punto da diventare “come un oggetto” nelle mani sapienti di un misterioso “padrone”. Rapidamente: l’io narrante è un ragazzo appena arrivato dalla provincia, e trova lavoro in un’azienda di una grande città. Nel giro di poco tempo egli si uniforma perfettamente ai modelli richiesti, e il suo unico fine vitale diventano il lavoro e la sottomissione assoluta al “padrone”. A un certo punto egli sente la necessità di essere un ingranaggio che si annulla nell’anonimo lavoro quotidiano;   si paragona a  una “cosa”, che in tanto vale in quanto sa di appartenere a qualcuno. Egli quasi gode di questa sua “cosalizzazione” e ci si adatta supinamente. C’è un passo del romanzo che è illuminante, e che forse vale la pena di citare per esteso, tanta è la sua “terribilità”:

 

 

“[…] Ogni momento della giornata, o meglio, ogni atto della mia vita (alzarmi al mattino, prendere il filobus, mangiare, lavorare, tornare in ufficio, cenare e coricarmi per la notte) è un atto che non è mai fine a se stesso, ma vive e si anima in funzione del dottor Max e della ditta che il dottor Max rappresenta. Dormo perché sono stanco, mangio perché ho fame, prendo il filobus perché è necessario arrivare puntuale alla ditta. Ma, appunto, un poco alla volta non faccio altro. Il cinema non mi piace più, la televisione nemmeno…, non vado alle partite di calcio, passeggio solo per sgranchirmi le gambe, non leggo libri e giornali, insomma non faccio assolutamente nulla che sia estraneo alla ditta e al dottor Max… Se guadagnerò di più, questo fatto mi farà molto felice, non tanto per il denaro quanto perché, con quell’aumento di stipendio, il dottor Max, di sua iniziativa, vorrà premiarmi e dimostrare che per lui sono una proprietà cara, cioè un oggetto che va tenuto con cura […]”.

 

Quindi, l’agghiacciante “confessione” del giovane protagonista si conclude con un’ulteriore riflessione che prendiamo per buona, data la situazione assurda e surreale in cui si muove questo romanzo metaforicamente “estremo”, ma che ci fa capire quanto bene Parise avesse capito certi i meccanismi perversi che si annidano dentro le nostre società opulente: “ […] Insomma, la mia vita è mutata radicalmente come prevedevo fin dal primo giorno e ora ne è cominciata un’altra che potrebbe apparire quella di uno zelante impiegato. Non è così: io non sono zelante, non c’è nessun servizio di zelo nell’essere quello che sono, cioè nel fare la vita che faccio, ma semplicemente faccio la vita che faccio perché essa mi dà un senso di grande armonia e di grande serenità […]”. (1)

 

 

    Enzo Sardellaro

 

1)      Goffredo Parise, Il padrone, Torino, Einaudi, 1971, p. 73. Parise nacque a Vicenza nel 1929 e morì a Treviso nel 1986. Fu un giornalista, uno scrittore e un drammaturgo di ottimo livello. Viaggiò parecchio in Africa, in Vietnam e in Cina. Tra le sue opere più famose ricordo Il prete bello, del 1954.  

 

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.