Populus plebesque

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Con l’instaurazione della Repubblica [509 a.C.], lo Stato Romano, al posto dei Re, fu guidato dai “Praetores” e dai “Consules” , eletti ogni anno dai “Comitia Centuriata” e successivamente confermati dai “Comitia Curiata”. Essi possedevano il privilegio di poter sedere in Senato e di amministrare la giustizia, avevano il comando dell’ esercito, nonché la cura degli affari religiosi. I Questori possono essere assimilati ai ministri delle finanze, avendo cura del tesoro dello Stato. All’inizio erano soltanto quattro, poi furono raddoppiati e sotto Silla furono portati a 20, e praticamente furono raddoppiati al tempo di Cesare.

Tutti costoro costituivano la classe dei patrizi, o aristocratici. Si trattava di proprietari terrieri, che praticamente ricoprivano non solo le più alte cariche dello Stato, dell’esercito e della casta sacerdotale, ma sostanzialmente avevano il controllo pressoché assoluto delle terre pubbliche. In sostanza, il vero e proprio “populus Romanus” (maiuscolo) era proprio quest’ ordine privilegiato, che controllava ed “ereditava” il governo dello Stato. Al di sotto c’erano I plebei, un “popolus romanus” (scritto in minuscolo) di categoria inferiore, che accomunava una varietà di individui, dagli agricoltori ai coloni, per finire ai popoli conquistati, con diritti inferiori; erano ineleggibili e combattevano nella fanteria.

I matrimoni misti con patrizi erano impossibili per legge, e i componenti del ‘populus romanus plebeius” potevano essere fatti schiavi per debiti. Questa è, sia pur sommariamente, la scena politica e sociale che presentava la “Repubblica Romana”. Dal 509 al 227 a. C. Roma fu teatro delle lotte cruente tra patrizi e plebei per l’uguaglianza dei diritti. Gli sviluppi di questa lotta hanno dato il via ad una serie imponente di studi storici e linguistici che, nel complesso, fanno meglio capire le caratteristiche del “Populus plebesque”.

Dal punto di vista strettamente etimologico, possiamo dire che il termine latino “plebs”, secondo alcuni eminenti studiosi, deriva dalla radice indoeuropea “ ple-dh”, che in greco dà “πλεθος” [=plethos] (1). Tuttavia, mentre in greco il termine indicava la folla, la “massa informe” , presso i Romani la “plebs” costituiva un vero e proprio “ordo” [=ordine] e possedeva un connotato giuridico forte, stando per “classe sociale”, o, con riferimento al nostro mondo contemporaneo, per “partito”. Sostanzialmente, anche se in senso molto lato, potremmo dire che “plebs” potrebbe corrispondere al moderno Partito Democratico, mentre l’aristocrazia potrebbe essere assimilata ai moderni Conservatori. Comunque, come diceva l’arguto Capitone, era estremamente semplice comprendere la differenza tra Patrizi e Plebei, perché

“Plebes autem ea dicatur in qua gentes patriciae non insunt” [Sono chiamati plebei coloro che non appartengono all’Aristocrazia” (2).

Veniamo ora a “populus”.

Presso i Greci il termine “plebs” [ δῆμος = “demos”], aveva una connotazione giuridica generica perché indicava l’insieme dei cittadini, anzi, meglio, “un insieme, un gruppo di uomini non schiavi, dediti all’agricoltura e all’allevamento” (3). E’ comunque estremamente difficile risalire all’etimologia di “populus”, e anche oggi le posizioni tra gli studiosi sono molto divaricate. Secondo G. Devoto (4), “populus” sarebbe di origine etrusca [=”Poplu”]; e significherebbe una “schiera armata”, indicando in modo lato l’esercito. In questo senso, l’ipotesi ventilata da Devoto sembrerebbe suffragata anche da alcune interessanti considerazioni di Arnaldo Momigliano, per il quale “populus” e “plebs” costituivano un’ “unica classe sociale” che rimandava anch’essa al concetto di “esercito”, confermando sostanzialmente l’ipotesi già ventilata da G. Devoto. Cosicché, a parere di Momigliano, “nella formula ‘populus plebesque’ [il popolo e la plebe] dobbiamo riconoscere gli ‘infra classem’ [coloro che sono compresi in una stessa classe sociale]. In origine ‘populus’ corrispondeva a ‘classe’, e la cosa ci è nota dal ‘magister populi’ e dal verbo ‘populor’ che presuppone il significato di ‘populus’ come ‘esercito’”(5).

Divagazioni dotte

In Cicerone, il termine “populus” assunse connotazioni estremamente moderne e interessanti. Cicerone, come uomo politico forse non valeva poi molto, ma come pensatore bisogna levarsi tanto di cappello:

“Populus, chiarì Cicerone, autem non omnis hominum coetus quoquo modo congregatus, sed coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis communione sociatus. Eius autem prima causa coeundi est non tam inbecillitas quam naturalis quaedam hominum quasi congregatio: non est enim singulare nec solivagum genus hoc” [“Il popolo non è ogni unione di uomini aggregati casualmente, ma l’unione d’una moltitudine legata in società d’accordo intorno alle stesse leggi e alla necessità di un bene comune. La prima causa di questa unione è non tanto la debolezza, quanto una forma di aggregazione direi naturale tra gli uomini, perché essi non sono adatti a vivere né a spostarsi in solitudine” (6).

Indubbiamente una definizione molto interessante, ma teorica con riscontri nulli con la realtà.

Curzio Rufo, infine, si soffermò sul termine “multitudo”, adombrato senza commenti da Cicerone, che tenderebbe a coincidere con “plebs”, assumendo però un valore dispregiativo, indicando la folla informe e spesso povera [ =“multitudo”], che era priva di qualsiasi diritto politico, e che, soprattutto, minacciava il potere dei “Migliori”. Inutile dire che i “Migliori” erano, per “autodefinizione” i “Patrizi”. Conoscendo un po’ di storia romana, possiamo affermare senza tema di smentita che tale “autodefinizione” era perlomeno “esagerata”. E mi limito ad un eufemismo . Tornando alla “Multitudo”, essa si presenta, con Curzio Rufo, come principalmente soggetta alla superstizione: “Nihil efficacius multitudinem regit quam superstitio’ [Nessuna cosa governa la moltitudine quanto la superstizione]). Talvolta essa è rappresentata quasi come una bestia feroce [‘saeva multitudo’], aizzata dai ‘farisei” contro gli uomini degni e virtuosi, ‘et ob id plebi invisos’ [per questa ragione invisi alla plebe]” (7). Sapendo che le lotte “plebee” contro i “Migliori” durarono, più o meno, dal 509 al 287 a. C., ci possiamo facilmente erudire sul fatto che i Patrizi mollarono l’osso con estrema difficoltà, e che le definizioni negative sopra addotte riguardo la “plebs” avevano un fondamento di verità indiscutibile, ovviamente nei convincimenti del “Populus Romanus”, quello cioè che si scrive con la maiuscola.

Note

1) “Dictionnaire étymologique de la langue grecque”, Heidelberg-Paris 1938. Ad Vocem.

2) Gellio, N.A., X, 20,5.

3) S. Cagnazzi, “Quaderni di storia”, 1980, n. 11, p. 304.

4) G. Devoto, in “Studi Etruschi”, VI, 1932, pp. 243-260.

5) A. Momigliano, “Roma arcaica”, 1989, p. 218.

6) Cicerone, “De Re Publica”, 1, 25, 39.

7) P. Cristofolini, “Populus, plebs, multitudo. Nota lessicale su alcuni interscambi e fluttuazioni di significato da Livio e Machiavelli a Spinoza”, In “Laboratorio dell’ISPF, V, 2001, n. 1, p. 29. Cfr. anche A. Savelli, “Un percorso semantico: dal ‘populus’ all’indistinta moltitudine”, in “Laboratoire Italien”, 2001, n. 1, pp. 9-24.

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.