Cinema d’evasione e disoccupati negli anni della Grande Depressione

Un breve episodio di cronaca è emblematico per comprendere l’importanza del cinema americano negli anni della Grande Depressione. Il fattaccio accadde nella Carolina del Nord nel 1932, quando un gruppo di disoccupati invase una sala cinematografica pretendendo di vedere il film senza pagare il biglietto d’entrata. L’episodio dimostra come fosse difficile per i cittadini colpiti dalla crisi economica rinunciare a ciò che in quegli anni era il più diffuso e popolare dei mezzi di comunicazione di massa.

 

Perché accadde un simile fatto?

 

La cosa si spiega anche senza tante sottigliezze di carattere sociologico. Così, a lume di naso, è sufficiente ricordare che il cinema era per molti disoccupati americani dell’epoca la sola via per impiegare il  (molto) tempo libero a disposizione. Le sale cinematografiche, diffuse  capillarmente in tutte le  città e quartiere per quartiere, erano il luogo più comodo dove poter “ammazzare il tempo”. Ma questa  è soltanto una spiegazione parziale, perché la gente andava al cinema non soltanto per passare le lunghe ed inerziali  ore della giornata, ma anche per seguire, ad occhi spalancati ma pur sognanti, storie fantastiche. Di fatto, diversi osservatori  dell’epoca pensarono  che il  motivo reale per cui la gente andava al cinema negli anni della Grande Depressione era quello di “evadere”,  e di sfuggire ad un presente oscuro ed incerto, con una full immersion in storie completamente immaginarie.

Ma le cose stanno realmente nei termini sopra detti? La cosa è meno semplice di quanto si possa credere a prima vista. C’è, per esempio, un dato preliminare da prendere in considerazione: prima di tutto il fatto che nel cinema americano dei primi anni ’30 fu messa in discussione una delle principali e più rispettate regole, quella del “lieto fine”. Analizzando oggi anche un film comico come Luci della città di Charlie Chaplin,  non possiamo non restare sopresi dal finale. Rinunciando del tutto alla tradizionale conclusione sorridente, questo film si congedava dallo spettatore con una nota amara, e si ha la netta impressione che Chaplin  si fosse  rifiutato  di proposito di offrire al pubblico promesse irrealizzabili e preferisse rituffarlo nella realtà prima ancora che esso uscisse dalla sala.

 

La conclusione che si potrebbe trarre è che il cinema americano negli anni della crisi si muove tra evasione e realismo; cosicché le storie fantastiche, piacevoli e rassicuranti, si accompagnavano a rappresentazioni e ad immagini del mondo reale in un intreccio pressoché inscindibile. Possiamo trovare un esempio credo abbastanza rilevante di questo trend in un film come La danza delle Luci, del 1933. La danza delle Luci,  di Mervyn LeRoy, fu uno dei primi film musicali, in cui giocò tuttavia un ruolo fondamentale l’allora celebre coreografo Busby Berkeley.

 

La danza delle Luci narra una storiella di carattere molto leggero, apparentemente a lieto fine, inframezzata da lunghi e fastosi balletti. E allora ci si chiede: che cosa poteva avere a che fare un film del genere con la crisi economica innescata  dalla Great Depression? Apparentemente poco, se ci fermiamo allo schermo; molto,  se proviamo ad andare “dietro le quinte”. Intanto, una prima “spia” di un evidente riscontro con la realtà della crisi si ha proprio all’inizio. Il film sembrerebbe di pura evasione:  comincia con un balletto sontuoso, celebrante la prosperità e il denaro, dove si canta “We’re in the Money” (siamo in grana). Le “grane” però si presentano subito, perché il balletto è interrotto dalla polizia, venuta a pignorare tutto.  Ciò rimanda al fatto che l’ondata di fallimenti innescatisi con la Great Depression andava coinvolgendo  anche il mondo dello spettacolo, per cui  la “fabbrica dei sogni” sembrò incepparsi,  rischiando di non funzionare più a dovere nel lanciare messaggi ottimisti ad una nazione ormai costituita essenzialmente di disoccupati. E’ l’impresario stesso che ebbe l’idea. Egli non avrebbe messo in scena la prosperità, ma la depressione economica; non più il denaro, ma la povertà generalizzata. All’apparenza, siamo di fronte a una presa di posizione determinata; però, subito dopo avere enunciato simile intento, il film sembra dimenticarsene completamente, e anziché raccontare le code di disoccupati,  rappresenta una divertente e borghese commedia degli equivoci.

 

Nella New York della Grande Depressione, tre showgirl disoccupate , Trixie, Carol e Polly, condividono un appartamento per via delle ristrettezze economiche in cui versano  e perché lo show cui dovevano partecipare  era stato annullato per la mancanza di finanziamenti. Le tre ragazze si danno da fare per trovare una via per far quadrare il bilancio, ponendo così le basi per l’evoluzione della trama del film.

 

Le cose sembrano mettersi al meglio quando esse vengono a sapere che il loro produttore, Barney Hopkins, sta per lanciare un nuovo show, in cui potranno di ottenere una parte. Tuttavia egli sembra mancare dei necessari finanziamenti. Nel frattempo, Hopkins  sente  Brad, un vicino,  suonare il pianoforte e cantare, e ne rimane entusiasta. Brad si rivela non solo un abile cantante, ma anche un possibile nonché generoso finanziatore del nuovo spettacolo, offrendosi di versare quindicimila dollari. La cosa all’inizio non convince, ma poi si scopre che Brad è il rampollo da una facoltosa famiglia di Boston, con cui Polly si fidanza. Tuttavia, il fratello di Brad, J. Lawrence, e un avvocato di nome Peabody, arrivano all’improvviso, tentando di scoraggiare Brad dallo sposare una semplice showgirl.

 

A questo punto, Trixie e Carol sfoggiano tutto il loro fascino cercando di conquistare i loro sprezzanti avversari (Trixie ci prova con Peabody, mentre Carol con J. Lawrence), che un po’ alla volta cominciano a cedere. Il film si conclude con una riconciliazione completa, e le tre coppie finiscono per sposarsi .

 

Questa è la semplice trama del film. Però i nodi focali sono dati dai balletti escogitati dalla mente vulcanica di Brusby Berkeley, il quale dà agli spettatori una visione “duale” della realtà americana. Al balletto d’apertura, guidato da Ginger Rogers che canta “We’re in the money” accompagnato da un codazzo di showgirl vestite in costumi ricoperti di monete scintillanti, fa da contraltare  l’ultimo balletto, che possiede invece una evidente connessione  con la depressione economica che sta attanagliando l’America.

 

La scena idillica finisce quando arriva la polizia per confiscare i costumi dei ballerini, costretti perciò ad indossare costumi da mendicanti, mentre sollevano lamenti sull’inganno patito dagli americani, specie dai reduci della prima guerra mondiale. Emozionante è la danza  dei cosiddetti “uomini dimenticati”,  che mostra  alcuni reduci della grande guerra feriti e delusi, ma che tuttavia marciano con orgoglio: l’intento è di evidenziare come la crisi abbia ridotto gran parte della popolazione alla stregua di mendicanti. E qui il film si chiude senza altri commenti e con un triplice matrimonio.

 

La danza delle Luci ci dimostra pertanto come il cinema americano degli anni ’30 non fosse stato soltanto uno strumento di fuga dalla dolorosa realtà quotidiana, ma,  al contrario, come  esso riprendesse, non a caso,  i temi della crisi economica, inserendoli sapientemente, attraverso i balletti,  dentro gli schemi di una storia apparentemente di pura evasione.

 

L’operazione intentata dal film non fu neutrale rispetto alla politica americana di quegli anni, perché, a quanto pare, dietro le quinte c’era, da parte di alcuni produttori, come i fratelli Warner,  una particolare simpatia politica per il New Deal innescato da F. Delano Roosevelt, che aveva promesso di battersi senza tregua per far uscire il popolo americano dagli effetti disastrosi della crisi economica. “Dietro le quinte” de La danza delle Luci c’erano  dunque i Fratelli Warner, la Warner Bros, decisamente simpatizzanti del New Deal. E ciò in netta controtendenza rispetto  alla maggior parte dei produttori di Hollywood,   conservatori e fieramente avversi al New Deal. A quanto ci è dato sapere, Harry Warner ordinò ai suoi studi cinematografici un’azione di supporto sostanziale a Roosevelt, facendo intravvedere  una  possibile soluzione ottimistica della crisi economica proprio grazie a Roosevelt.  Di qui la produzione di film voluti dalla  Warner Bros  come I Am A Fugitive From A Chain Gang, e La danza delle luci,  immesso sul mercato nel giugno del 1933.

 

Le “luci della ribalta” della Danza delle luci giocarono effetti ottici molto particolari, da un lato “abbagliando” lo spettatore, e dall’altro “illuminandolo” realisticamente intorno a possibili scelte “politiche”, e facendo alla fine propaganda per il New Deal di Roosevelt.  Tra l’altro, e per tornare “dietro le quinte”,  c’era perfetta “sintonia” di vedute tra Busby Berkeley e Roosevelt:  il primo avendo asserito  che, in un’epoca di profonda crisi, egli aveva cercato in tutti i modi di dare una mano agli americani dando loro qualche sprazzo di felicità e divertimento;  il secondo (Roosevelt)  sottolineando come fosse bellissimo che gli americani, in  periodo di profonda crisi e depressione economica del paese, con la modica spesa di  soli 15 centesimi, potessero andare al cinema e farsi quattro risate, dimenticando per un attimo tutti i loro problemi.

 

La terapia del “divertimento consapevole”, inframmezzato cioè da sprazzi di realtà, fu quindi lo strumento utilizzato negli studi della Warner Bros a supporto della visione ottimistica di Roosevelt, il quale poté contare non soltanto sui fratelli Warner, ma anche su Busby Berkeley, soldato per formazione, e supporter convinto dell’Amministrazione Roosevelt. Danza, coreografia e politica furono dunque gli ingredienti che fanno della Danza delle Luci un prodotto “esemplare” del cinema americano negli anni della Grande Depressione.

 

Titolo originale: Gold Diggers of 1933 (USA,  96 minuti). Regista: Mervyn LeRoy. Coreografia: Busby Berkeley. Cast: Ginger Rogers , Guy Kibbee , Ned Sparks, Dick Powell, Joan Blondell, Aline MacMahon, Ruby Keeler, Warren William.

 

Nota

 

L’interpretazione qui data della Danza delle Luci si fonda su fonti ormai largamente accreditate, e quindi non presuppone nuove prospettive critiche. In particolare, le fonti di riferimento sono le seguenti:

Babington B. & Evans, P.W. 1985. Blue Skies and Silver Linings: Aspects of the Hollywood Musical. Manchester: Manchester University Press. 48. “Its release thus [coincided] with the height of expectation leading up to the first legislation of the new Congress, and both the anxieties and expectations of this period are refracted in it. ”

Booker , M.K. 2002. The Post-utopian Imagination: American Culture in the Long 1950s. Westport Connecticut.London: Greenwood Press. 27.

Bronfen, E. 2008. “The Violence of Money.” Comunicação & Cultura, n. 6.  53.

Bronfen, E. 2012. Specters of War: Hollywood’s Engagement with Military Conflict, New Brunswick -New Jersey-London: Rutgers University Press. 79, 81.

Carlisle, R.P. 2009. The Great Depression and World War II. New York: Infobase Publishing. 28.

Fehr, R. & Vogel, F.G. 1993. Lullabies of Hollywood: Movie Music and the Movie Musical, 1915-1992. Jefferson, North Carolina: McFarland. 141. “During the Depression […] it is a splendid thing that for just 15 cents an American can go to a movie […] and forget his troubles.”

Kaplan, L. 2005. American Exposures: Photography and Community in the Twentieth Century. Minneapolis-London: University of Minnesota Press. 6.

Roosevelt, F.D. 1932. “The Forgotten Man.” Works of Delano Roosevelt. http://newdeal.feri.org/speeches/1932c.htm. 5.

Spivak ,J. 2011. Buzz: The Life and Art of Busby Berkeley. The University Press of Kentucky. 72, VII. “It was no secret that the liberal Warner Brothers were enthusiastic supporters of President-elect F. Roosevelt.”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.