D’Annunzio politico, non-politico, o impolitico?

D’Annunzio fu variamente intrigato con la politica, ma sono in pochi a credere che egli fosse un politico “sul serio”. Così, ad esempio,   i  più assidui studiosi di D’Annunzio non sembrano dare credito al fatto che egli possa essere considerato un politico tout court, anche se, per la politica, D’Annunzio sembra avere avuto una certa qual tensione “ istintiva”, che andrebbe interpretata sempre e comunque sub specie poesis.

 

Secondo G. Parlato, D’annunzio fu un “irregolare” della politica, che “si concesse” ad essa più che altro per vanità,  interpretandola però come “letteratura”. Anche l’ “avventura fiumana”, asserisce Parlato, fu letta in “maniera  lirica”, con cui Egli seppe esprimere “il senso di smarrimento che colse i combattenti alla fine della guerra. Neppure nel periodo fiumano, mai fu presente una visione politica organica;  il suo continuo rifarsi ad un’ansia di rinnovamento, filtrato più che altro in termini estetistici e poetici, il suo senso rivoluzionario utopico ed eroico, impediscono  di considerarlo padre del fascismo come di inserirlo in qualsiasi categoria politica. Il suo individualismo lo fece illudere di essere un politico: quello di essere un irregolare della politica e della letteratura fu il suo limite, e insieme determinò il suo fascino” [corsivi miei] (1).

 

Mussolini, che invece di politica era esperto cultore, si rese conto ben presto che l’operazione fiumana tutto poteva essere definita tranne che un’azione politica “pratica” tendente a fini “praticabili” dalla politica politicata. Infatti Mussolini,  dopo un primo appoggio all’impresa fiumana, tirò i remi in barca perché la faccenda lo stava  intrigando un po’ troppo,  senza per altro raggiungere lo scopo precipuo che a suo parere doveva avere, ossia di far cadere il governo guidato da Nitti. Pertanto,  ad un certo punto, Mussolini consigliò a D’Annunzio di “prendersi una pausa” (Parlato, p. 20).

 

P. Neglie sottolinea dal canto suo il carattere tutto “istintivo” della politica di D’Annunzio: “Il suo esser politico fu in realtà sempre una manifestazione istintiva”; e citava come pezza d’appoggio R. De Felice, il quale aveva scritto come “la sua politica [di D’Annunzio] fu spesso il prodotto di  stati d’animo e reazioni morali” [corsivi miei] (2).

 

Gli interventi di Parlato e di Neglie  sembrano ribadire il sostanziale fallimento  del D’Annunzio politico, per il di lui particolare modo di affrontare la politica stessa, in modo sostanzialmente a-ideologico ed estetico-sentimentale. In D’annunzio ci sarebbe stata sì  un’ “ansia di rinnovamento”,  che tuttavia si tradusse  nella pratica in gesti rivoluzionari senza sbocchi politicamente praticabili nella realtà effettuale di machiavelliana memoria.

 

Francesco Perfetti, anch’egli attivo studioso del D’Annunzio politico, già dai primi  anni ’90 era perfettamente convinto  che D’annunzio avesse fatto della  politica soltanto sub specie poesis; per esempio, il di lui nazionalismo era “non  tanto  ideologico,  quanto  piuttosto  estetico  e  sentimentale,  sublimato  da una  visione poetica  ed  eroica  del  divenire” [corsivi miei] (3).

 

Quanto a Renzo De Felice,  osservando i comportamenti del “deputato” D’Annunzio, più che di un politico, parla di un uomo che vuole essenzialmente soggiogare le folle: “La decisione di presentarsi deputato, il passaggio sui banchi della sinistra e poi il rifiuto di presentarsi candidato socialista […] hanno poco di politico, […] se non l’intenzione di comunicare alla folla certe parole, certi concetti certe idee, la esperienza di far trionfare la bellezza di un’idea […] attraverso questo tipo di comunicazione” (4).

 

Così,  anche la “prosa politica di D’Annunzio molto poco ha di effettivamente politico, è una prosa mitopoietica che ha come fondamento l’azione”,  che presuppone soltanto la “folla applaudente di fronte a un capopopolo”. E l’azione per D’Annunzio è “un’opera d’arte anch’essa, quando sia compiuta dall’artista supremo, che pone il suo sigillo su tutto ciò che tocca”  (5). Il cenno alla prosa “politica” di D’Annunzio ci porta a considerare, a distanza di tanti anni, quanto asseriva Bruno Migliorini a proposito della scrittura dannunziana,   guidata “dal valore fonico delle parole. Egli ama il puro suono, di qui, per lui, la lingua è solo espressione e non comunicazione. Il suono è il fattore preponderante” (6). Nel Trionfo della morte, proprio nella prefazione in cui compare il niciano ubermensch, che egli tradusse con Superuomo, egli ribadì il suo profondo disprezzo per “il vocabolo adoperato dai più” (Migliorini, p. 310).

 

Ergo, se ne potrebbe dedurre a buona ragione che per D’Annunzio la parola “politica” avesse un significato del tutto difforme rispetto a  quello corrente ai suoi e ai tempi nostri. E, in effetti, parrebbe essere proprio così:

 

“Alla vigilia della rappresentazione [della Gloria], scriveva F. Masci,   il nervosismo era diventato intenso, e in alcuni crocchi si parlava già di dimostrazioni clamorose in un senso o nell’altro. Pochi momenti prima che si alzi il sipario, il Poeta dice a Stanis Manca (critico teatrale della Tribuna: V. Tribuna del 14 marzo 1912): ‘ Mostrano di non intendere affatto lo spirito che mi muove in questo tentativo d’arte scenica, coloro i quali seguendo le dicerie, credono che io  abbia composto una tragedia politica, nel senso angusto che si dà oggi a questo epiteto, e immaginato di veder disegnare nei miei cori talune delle piccole figure deformi che si affannano nei corridoi di Montecitorio e Palazzo Madama. Le persone del mio dramma  hanno una statura non ordinaria e campeggiano su di un fondo grandioso di ombre e di luci’” (7).

 

Politico sui generis e illuso sembrerebbero  quindi gli epiteti che meglio  s’attaglierebbero al Poeta d’Abruzzo, il quale, se è vero quanto asserì molti anni fa un tale ignoto che si firmava X,Y, Z, diventò uomo “politico” per un caso del tutto fortuito e “fortunato”, perché, in effetti, egli riuscì a farsi eleggere deputato perché gli furono date per buone schede che, invece, dovevano essere dichiarate nulle per un “vizio di forma” che sicuramente avrebbe fatto inorridire il Vate compulsatore di dotti vocabolari e degustatore raffinato della parola “rara”. A quanto ci racconta X,Y, Z,

 

“fu  una cattiva idea degli elettori del Collegio di Ortona a Mare di contrapporre il suo nome a quello di Altobelli. L’elezione, due volte annullata poi, diede luogo ad asprissime polemiche. Diede luogo anche, nel 1898, ad una relazione assai severa per l’annullamento, compilata dell’on. Gaspare Colosimo. Fra le ragioni di invalidità fu addotto che molte schede erano state attribuite a D’Annunzio mentre andavano annullate. Ma si poteva avere dubbio sulla intenzione dello elettore, anche se scrisse, come si poté leggere su moltissime schede: Cavaliere Gabriele d’ annunzio, Cabriele D’Annunzio, Abriele da Nunzio, Poeta Gabriele D’Annunzio Depotato al Parlamento od anche, come in una sezione non so bene se di Guardiagrele o di Pescara, Cav. briele d’Annunio Primo Poeto?” (8).

 

A parte la boutade testé citata, e sempre ammessa la veridicità dei fatti, ci sarebbe  da considerare se,  nonostante tutte le prove e contrario, si possa veramente asserire con certezza assoluta e senza ripensamenti che D’Annunzio fosse per davvero un non-politico, un “irregolare” della politica,  un politico d’ “istinto”, un “illuso” che credeva d’essere un politico “vero”.  I suoi repentini “trasferimenti” da destra a sinistra, che tanto avevano fatto arrabbiare Renzo De Felice,  le sue “utopie” antiliberali, i suoi sogni di rinnovamento palingenetico della società italiana, il suo spregio per gli “angusti” confini in cui si muovevano, come lui diceva, quelle “figure deformi” di politici tra Montecitorio e Palazzo Madama, mi fanno pensare, più che ad un non-politico,  ad una sorta di anarchico-libertario che non vuole soggiacere a nessuna norma o etichetta o, meglio ancora, ad un im-politico.

 

Cosiccome l’anarchico-libertario o  “nichilista-anarchico”, è colui che s’incunea nella tradizione del “libertinismo moderno”, dove troviamo, tra gli altri, bohemien snob [ e D’Annunzio era effettivamente tutto ciò) (10); l’ impolitico, non è assolutamente un “a-politico”, ma una sorta di “radicale” che rifiuta di assoggettarsi alle “norme” generali della politica, presupponendo obiettivi “alti” che vanno oltre la mera conquista del potere (10).

 

M’è venuta la curiosità di compulsare  il Vocabolario della prosa dannunziana,  approntato da L. Passerini all’inizio degli anni ’10 del Novecento, e ho notato, senza particolari stupori, che  la parola politica-o non è assolutamente contemplata (11).

 

Scherzandoci un po’ sopra, si potrebbe asserire che anche il Vocabolario della prosa dannunziana sembrerebbe dar ragione a quanti ritengono D’Annunzio un “illuso” e un non-politico. Tuttavia, per il modo “diverso” d’intendere l’azione politica, mi sono convinto che l’etichetta più confacente al Vate d’Abruzzo sia quella di anarchico-libertario e di impolitico, soprattutto.

 

L’unico vero e unico gap che egli non riuscì a colmare  fu il confronto con Mussolini. Quella sì che fu una sconfitta “bruciante”, nel senso che lo “bruciò” letteralmente sia come politico sia come non-politico e sia, infine, anche come impolitico; e tanto più “bruciante” perché D’Annunzio non era, al contrario di Savonarola, un profeta disarmato come asserì l’ottimo Machiavelli; anzi, il Vate non soltanto era armato, ma anche armato fino ai denti.

 

Note

 

1)      G. Parlato, “La crisi dello stato liberale e la ‘nuova politica’. Il significato di fiume”, in Fiume Legionaria, A ottant’anni dall’impresa dannunziana, Atti del Convegno, Trieste, 27 novembre 1999, p. 22.

2)      P. Neglie, “Gabriele D’Annunzio e Alceste de Ambris: il poeta soldato e il sindacalista rivoluzionario”, in  Fiume Legionaria, cit.,  p. 26.

3)      F.  Perfetti,  “D’Annunzio,  ovvero  la  politica  come  poesia”,  in D’Annunzio  e  il  suo  tempo.  Un  bilancio critico,  a cura di F. Perfetti, Genova,  Sagep,  1992, Vol. I,   p.  384.

4)      Renzo De Felice, “D’Annunzio politico”, in Quaderni dannunziani. Nuova serie n. 1-2: D’Annunzio politico: Atti del Convegno (Il Vittoriale, 9-10 ottobre 1985), a cura di Renzo De Felice & Pietro Gibellini, Milano, Garzanti, 1987, p. 16.

5)      G. Barberi Squarotti, “D’Annunzio scrittore ‘politico’”, in Quaderni dannunziani, cit.,  p. 331 e p. 320.

6)      B. Migliorini, “Gabriele d’Annunzio e la lingua italiana”, in Saggi sulla lingua del ’900, Firenze, Sansoni, 1963, p. 310 sgg.

7)      F. Masci, La vita e le opere di Gabriele d’Annunzio: in un indice cronologico e analitico, Ed. Danesi, 1950, p. 148.

8)      X, Y, Z “Uno che lo conosce: Gabriele D’Annunzio in tre lettere”, Lettera Terza, in Gli uomini del giorno, Milano, Modernissima Casa Editrice Italiana, MCMXIX [1919],  p. 39.

9)      Javier Gomá, Esemplarità pubblica, Roma, Armando, 2011, p. 97.

10)    R. Esposito, “Introduzione. Termini della politica”. In Oltre la politica. Antologia del pensiero ‘impolitico’, a cura di R. Esposito, Milano, Bruno Mondadori, 1996, p. 9, 11.

11)    G. L. Passerini, Il Vocabolario della prosa dannunziana, Firenze, Sansoni, 1913, Voce politica: non c’è.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.