Giovani, vecchi (e poveri) nella “Rettorica” di Frate da Urgnano

In linea generale i manuali di retorica non sono il massimo dei divertissements cui si possa aspirare, ma ogni tanto se n’incontra qualcuno  che, pur non cedendo in rigore, assume colori retorici gradevoli, e tali fa far meglio digerire la materia. Uno di questi fu scritto dal Frate Michele Zanardi da Urgnano, dell’Ordine de’ Predicatori, il quale,  nel giugno del 1632, licenziava alle stampe la sua Rettorica Aurea.

Egli inizia dicendo che il “Prencipe Platone” nel  “Gorgia & in Philebo”  asserì che “Rethorica est ars persuadendi” [la retorica è l’arte di persuadere]; cosiccome  Quintiliano, nel  “lib 2.  C[arte] 15”, asseriva che la retorica  “est ars seu vis bene dicendi” [l’arte del bel parlare]. Quindi, Il nostro bravo “rettorico”, pietoso verso il suo uditorio, si premunì anche di fornire esempi d’“inventio” atti ad accattivare le simpatie del pubblico verso l’oratore. Egli dunque, riguardo all’ “inventio”,  scriveva:

“La prima sarà che voi troviate inventione bella, vaga curiosa & desiderata e che la portiate con parole vaghe, ornate, piane,  facili,  correnti e gioconde servendovi a tempo e luogo di ‘auttorità’ [= scrittori autorevoli], sentenze, figure e descrittioni, portando il soggetto come giusto, religioso, necessario et  utile.  Però qui saprete che le cose che voi persuadete o che sono ordinate a procurargli la benevolenza degli ascoltatori overo [sic] fargliele odiose. Se voi gli volete acquistare amore toccate tutti i tasti che fanno la cosa amabile. Se voi gli volete rubbare l’ affetto & concitargli [=suscitargli] odio rinforzatevi in tutti quelli accidenti che svegliano [suscitano] nausea, obbrobrio, vituperio e sdegno”.

Poi, dice ancora il nostro retore, non è neanche  un’idea balzana trovare qualcosa che susciti il riso, servendosi  “di facetie,  motti,  figure colori e persino di soggetti che svelino il riso et habbino del giuoco ( e siano piacevoli e giocose). In questo senso, potete usare degli scioglilingua divertenti (Nabuccodonosor=becco da nasar]. E se qualcuno vi dicesse che siete figlio d’un asino, non vi arrabbiate, ma abbracciatelo, esclamando: “ Papà!”.

State però attenti, continua il frate da Urgnano, a non ridere in maniera sgangherata, magari fino alle lacrime, perché perdereste in dignità:

“La prima che il ridere nostro non deve convertirsi in cachin[n]i”(=risate sguaiate), perché  “certo sarebbe disdicevole in una persona publica [sic] e grave vederla violenta nel volto dal riso mandare lagrime dagli occhi et  enfiarsegli (=gonfiarglisi) la gola […] laonde (per cui) disse il Sapiente Risus abundat in ore stultorum. Evitate con accuratezza  di fare i  “buffoni”.

Molto importante, diceva ancora il dotto Frate da Urgnano, è il sistema retorico da usare secondo la componente che vi ascolta: se si tratta di giovani, ci vuole un metodo; se di persone anziane ce ne vuole un altro, per cui  “trattandosi con loro vi doverete accommodare al loro genio e proprietà”. Cercate, insomma, di adattarvi. Poiché non era il caso d’andarsi a impelagare con le classi sociali, che, tra parentesi, non contavano un bel niente (fatta eccezione per l’aristocrazia), il manuale dell’acuto Frate da Urgnano si limita a esercitare il potere della retorica essenzialmente sulle fasce d’età: giovani e vecchi. Poi ci mette dentro anche i poveri, ma più che altro per una sorta di riconosciuta misericordia cristiana, trattandoli anche malamente e gratificandoli di epiteti non propriamente misericordiosi: “Sono d’animo basso, vile, patienti,  ma invidiosi, detrattori,  suspettosi et iracondi”.

I giovani

“I giovani, afferma Frate da Urgnano, Maestro di Sacra Teologia e Bacilliere Ordinario nello studio di Bologna, desiderano molte cose e più ne sperano, ma facilmente cadono le loro speranze per ogni picciolo intoppo. Si mutano i loro desideri se gli si presenta oggetto più vistoso & al loro giudicio […] amabile,  voltando bandiera. Sono facili all’ira et alla vendetta, ma molto incostanti e varij. Non giudicano molto male d’altri né sono sospettosi né maligni,  ma facili ad essere sedotti e pronti alle concupiscenze e loro effetti. Non stimano molto il denaro, se non tanto quanto la necessità porta. Se bene sono ambitiosi et avidi di gloria e dignitadi (=dignità), a quali aspirano con tutto il cuore,  arrossiscono però nell’essere scoperti […] Amano le compagnie e si rendono pronti tra i compagni a fare gran cose,  ma se urtano, fuggono, si vergognano e si nascondono. Stimano che gli altri procedino seco (= si comportino con loro) schiettamente,  come sogliono (=sono soliti) essi procedere con altri […] Se volete che vi corrano dietro dategli de’ giuochi, de’ spassi,  invitategli a balli e feste à danze […]  e sopra il tutto non gli date fastidio né gli occupate grandemente ne’ studi che ve ne vorranno male. Et in somma tenetegli volubili, inamorati [sic], impatienti, furiosi, precipitosi, iracondi, audaci, empetuosi [sic],  ma liberali et amicabili [=amichevoli]”

I vecchi

“La natura poi de vecchi si rende quasi per tutto contraria a questa de’ giovani,  perché con gli anni havendo molte cose isperimentate, meglio conoscono la natura del fallace mondo, perloché [=per cui] non sono creduli, né facili a moversi,  sospettando sempre che sotto ogni parola vi sij [=sia] un nido di scorpioni, di bugie, frodi et inganni. Parlano però molto, et in particolare delle cose da loro operate, delle quali molto si gloriano,  tassando [=tacciando] sempre i tempi presenti come maligni e degenerati dall’età d’oro che fu la sua [=loro]. Riescono avari e sempre dubbiosi che la terra gli manchi sotto a piedi, e quanto più si av[v]icinano alla morte, tanto più si affettionano alla robba (=roba),  a figli et honori,  nè vorriano [=vorrebbero] mai udire a parlare del morire loro. Amano però la quiete e la pace, e dubbitano [sic] d’ogni un (= dubitano di tutti),  riuscendo timidi, pigri, infingardi, sospettosi, che sempre si lamentano, né mai si contentano, bramando che ogni uno gli faccia servitù […] Sono facili ad udire, ma al credere tardi,  & allora, solo quando (=  soltanto quando) toccano il negotio (=negozio, questione) con mano […] Sono delicati,  odiano le reprensioni & le censure,  non vogliono superiore nella giurisditione, [e] intendono di poter fare ogni cosa a suo modo […] Amano i seguiti e vogliono essere riveriti e temuti. Pretendono di volere sempre avanzare i suoi maggiori in honori, robba e riputatione, e sdegnano ogni passato come basso e vile. Odono volentieri ragionare di guerra et arme e molto gusto prendono nelle caccie, ne’ giuochi e nelle dame.

I poveri

Quanto ai poveri,  sentenzia infine il dottissimo Frate da Urgnano, sono degli emeriti seccatori, gente invidiosa portata al lamento perenne: ma basta assecondarli, e verranno dalla vostra parte:

“I poveri sempre si lamentano,  e doglion [=si lagnano] che li ricchi habbino tanto et essi moijno (=muoiono) di miseria. Sono d’animo basso, vile, patienti,  ma invidiosi, detrattori,  suspettosi et iracondi. Vi accomodarete dunque, o mio Oratore,  al genio di chi parlate e vedrete di dargli nell’humore (=di assecondarli), che questo farà il primo vostro mottivo [sic] per tirarli al parer vostro (=per tirarli dalla vostra parte)”.

Infine, si raccomanda il dotto “rettorico”, non divagate, non fate i sapientoni, e non parlate di cose poco conosciute. Se volete incitare all’odio, non parlate sommessamente, ma urlate, sbraitate, “ma il tutto però a tempo e luogo,  non continuatamente”:

“Quindi, secondariamente,  vi avvertisco (=avverto) che, volendo movere gli affetti,  schivate (=evitate) tre cose. La prima che non vi occupiate nell’ oratione vostra in soggetti che non fanno al proposito vostro per movere gli animi, discorrendo di cose alte e pellegrine,  per parere un gran dotto; che questo non è il tempo, ma di stringervi [=attenervi] sì al negotio, e di non applicarsi all’insegnare, ma al commovere […] La seconda è che fuggiate tutti i contrari […] e se volete improntare amore, tralasciate tutti gli accidenti di odio, […] né ricordate cosa che forsi (=forse) è scancellata dalla memoria di quelli ai quali parlate […] La terza è che ben bene voi v’ informiate della natura degli affetti,  per non errare et penetriate alle inclinationi di quelli a quali favellate (=parlate) acciò l’intento vostro più facilmente otteniate […] Et se intendete di concitare a sdegno, odio e vendetta […]  non parlate basso, non tenete la voce fra denti, non vi mostrate lento, pigro,  e fiacco,  ma alzate la voce, esagerate il fatto, fate che eschino [=escano), per così dire, dagli occhi vostri fiamme ardenti: sudate, ansate, tonate, e finalmente fulminate con il viso, con la bocca e con le mani;  ma il tutto però a tempo e luogo,  non continuatamente,  ma ove premono i punti et si fanno più i particolari della causa.

Quando l’Oratore vedrà concitati di già gli animi nel maggior fervore,  potrà egli, con una grande esclamatione,  overo [sic] con qualche sententioso motto, ouero con mostrare estremo dolore & affanno,  lasciare la sua oratione e terminarla,  perché già è arrivato al porto, & si trova ove haveua dirizzate le vele del suo discorso”. In conclusione, quanto l’oratore intuisce che il suo uditorio è abbondantemente “gasato”, è tempo di riportare i remi in barca, e di non insistere oltre.

 

Nota

Rettorica aurea di F. Michele Zanardi, Maestro di Sacra Teologia e Bacilliere Ordinario nello studio di Bologna, in Bologna, Per Francesco Catanio, 1632.

 

 

 

 

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.