Come l’asino rese immortale Giordano Bruno

asino

 

“Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam”,

 

disse  Giordano Bruno nel suo latino alzandosi in piedi dopo aver ascoltato in ginocchio  la lettura della sua sentenza di morte:

 

“Scommetto il mio ultimo saio che ’sta sentenza fa più paura a voi che a me.”

 

Direi che, conoscendo lo spirito caustico ed irriverente del nostro filosofo nolano, questo potrebbe essere lo stile acconcio con  cui rendere il latino paludato di Giordano Bruno dopo la lettura della  sentenza che lo condannava al rogo.

 

È molto probabile che Bruno se la sarebbe potuta  cavare se fosse rimasto a Venezia e non fosse stato traslato a Roma, dove il Santo Uffizio ci mise comunque almeno tre anni e più prima di pronunciare la sentenza che decretava in Bruno l’ “eretico impenitente”, e che, come tale,  fu degno d’essere spogliato nudo e bruciato vivo sul rogo. È altresì probabile che Bruno se la sarebbe potuta  cavare se le accuse fossero state basate soltanto sui suoi scritti: la sua abilità nel difendersi e nel “minimizzare” è rimasta proverbiale. Ma contro di lui furono lanciate accuse del tutto volgari da testimoni che gli avevano giurato odio perpetuo,  come tal fra’ Celestino (o Antonio) da Verona [Antonio di Lattanzi Arrigoni],  il quale, volendosi vendicare di ipotetiche accuse lanciate da Bruno contro di lui,  lo accusò “di aver sostenuto che Cristo peccò mortalmente, che l’inferno non  esiste, che Caino fu migliore di Abele”, e altre consimili amenità (Aquilecchia, p. 91).

 

Tuttavia dal punto di vista strettamente logico (e teologico) difficilmente Bruno avrebbe potuto difendersi dall’accusa di panteismo. L’insistenza su una mens super omnia (Dio) diversa dalla mens insita omnibus (l’Anima del mondo) sarebbe stata comunque uno zoccolo duro che molto ma molto faticosamente egli sarebbe riuscito a far digerire al Sant’Uffizio;  soltanto che, forse, per l’insita abilità oratoria del nolano,  avrebbe potuto prendere il carcere a vita anziché il rogo.

 

C’è comunque il fatto che Bruno non  soltanto era ostinato nel rifiutare di abiurare in maniera “incondizionata” a tutti i suoi scritti (Aquilecchia, p. 100), ma anche che s’era fatto troppi nemici;  a parte il frate summenzionato, che lo sommerse d’accuse insulse, Bruno s’era fatto nemici “persino” i petrarchisti, dicendo che l’oggetto della loro poesia era “indegno”, mentre l’unico “soggetto degno” sarebbe stato, a suo parere,  la “verità”. S’era inimicato gli inglesi, mettendosi contro pressoché tutta Oxford; s’era inimicato il papato (la Bestia Trionfante dello Spaccio sarebbe stato Papa Sisto V); si mise contro “i ministri della Chiesa ginevrina” (Aquilecchia, p.14);  mentre a Parigi e a corte aveva ottenuto un notevole successo con le sue lezioni di mnemotecnica, era comunque riuscito a mettersi contro la Sorbona per il suo anti-aristotelismo; infine,  in Germania,  i tedeschi  gli negarono il permesso di leggere pubblicamente filosofia.

 

Poi si fermò a Helmstedt e a Francoforte per alcuni anni (Aquilecchia, p. 70 sgg.). Bruno sbagliò a tornare in  Italia aderendo alla richiesta di Giovanni Mocenigo di andare a Venezia per insegnargli  l’arte della memoria, e anche per altre ragioni, pare, legate ai suoi interessi di carattere matematico. Sta di fatto che, con mezza Europa contro, le spinte per una condanna esemplare potevano effettivamente venire da più parti.

 

Ciò che comunque infastidisce di più in tutta questa tragica vicenda di Giordano Bruno, è  il fatto che le accuse più insipienti e più pericolose furono lanciate contro di lui da emeriti asini, dei quali il più illustre esempio rimane fra’ Antonio da Verona. Ma dalla copia rimastaci della sentenza, risultano altre accuse a quel tempo ritenute gravissime, quali, “l’esser vissuto in paesi eretici” (il che era vero, ma non così grave colpa da meritare il rogo); “l’aver sostenuto l’esistenza di mondi innumerevoli (e anche questo era vero, in quanto l’universo concepito da Bruno contemplava “infinite parti”); l’aver sostenuto “che Mosè operò i suoi miracoli per arte magica”, e che “gli apostoli furono uomini malvagi e maghi” (il che sa parecchio di interpretazione appena orecchiata delle teorie di Bruno) (Aquilecchia, p. 104).

 

Bruno aveva avuto buon naso a predicare, con toni ferocemente satirici, che l’asinità domina incontrastata il mondo. Soltanto che, gli asini sono vendicativi, e gliela fecero pagare salata, anche troppo. La storia degli asini di Bruno fu fatta egregiamente da V. Spampanato, il quale lamentava tra le altre cose  il fatto che

 

“assai prima si troverebbe ricordato l’asino nelle opere bruniane, se queste fossero arrivate tutte alla posterità. Nell’ Arca di Noè, libro dedicato a Pio V e che andò smarrito, mentre gli animali si disponevano per ordine, l’asino fu in pericolo di perdere la preminenza, di sedere a poppa del legno.  In ogni modo, scampato dal diluvio, ebbe, in processo di tempo, un numero stragrande di discendenti, e, tra costoro, non ultimo, il maestro Anthoc che il Bruno menziona nelle Ombre delle idee. Ma, quantunque vantasse nipoti dottori, nulla, o poco, ebbe a guadagnare nella stima del mondo: fu, per lo più, condannato a continue e gravi fatiche, e retribuito col cibo peggiore che si possa trovare e con bastonate da orbi” (Spampanato, p. 33).

 

Pertanto, proseguiva imperterrito Spampanato, “nello Spaccio […] nella Cabala del cavallo Pegaseo con l’aggiunta dell’ Asino Cillenico, il Nolano si propose di ‘descrivere’,  di motivare, con una certa ampiezza, il trionfo del puro e sacrosanto animale” (Spampanato, p. 35).

 

Ad un certo punto, la satira di Bruno sull’asino raggiunge il suo acme,

 

“Or bene, non ‘deve parer strano che l’Asinità sia messa in sedia celeste’. I ‘ sacri et profani dottori che parlano con l’ombra de scienze, et lume della fede’, non dubitano in nessun modo, ma con la sicurezza e l’entusiasmo ch’è di coloro che son compresi della bontà della propria causa, ammoniscono, quasi a una voce:

 

Forzatevi, forzatevi dunque ad esser asini, ó voi che siete huomini; et voi che siete già asini, studiate, procurate, adattatevi à proceder sempre da bene in meglio’.

 

Mille luoghi della Scrittura provano quanto sia iniqua e snaturata l’opinione de’ più ; e, come fornirono la materia per l’inno latino che si cantava, ne’ secoli IV e V, in certe chiese francesi, e si legge in un dittico, trovato nella cattedrale di Sens, cosi potevano ispirare un sonetto, quale il seguente :

 

O sant’asinità, sant’ignoranza,

Santa stolticia, et pia divotione :

Qual sola puoi far l’anime sì buone.

Ch’human ingegno et studio non l’avanza” (Spampanato, p. 54).

 

Potremmo quasi dire che fu con gli asini che Giordano Bruno si guadagnò l’immortalità.

 

Fonti:

G. Aquilecchia, Giordano Bruno, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1971.

V. Spampanato, Giordano Bruno e la letteratura dell’asino, Portici, 1904.

 

 

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.