L’assassinio di via Belpoggio e lo stile “conservativo” di Italo Svevo

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Carlo Bo, nel 1953, a proposito de L’assassinio di via Belpoggio, sottolineava che “il racconto veniva considerato di scarso valore dallo Svevo ma invece a me sembra carico almeno di significato storico”. Il “significato storico” a cui Bo accennava consisteva nel fatto che egli vedeva abbozzate in questo racconto  le caratteristiche salienti dei personaggi dello Svevo maturo, ovvero “il ritorno [dei personaggi] sui propri atti, il corso della meditazione,  la trasfigurazione nel giuoco dei pensieri, lo scatto dell’ossessione” (Carlo Bo).

 

Bo aveva visto giusto, e non soltanto per la presenza di quel “giuoco di pensieri” che di fatto si accavallano nella mente del protagonista, Giorgio, ma anche per la scelta della figura stessa dell’ “assassino”. Apparentemente, questi sembrerebbe appartenere ad una classe sociale che nulla avrebbe a che fare con i tipici  borghesi di Svevo; egli infatti è un semplice facchino, che tira a campare lavorando qualche giorno la settimana. Ma se si guarda un po’ attentamente, si scopre che Giorgio non appartiene “in toto” alla classe operaia, e che la madre aveva fatto di tutto perché si costruisse una carriera di agiato borghese:

 

“Giorgio nella triste società nella quale viveva, veniva chiamato il signore […] Fece vari tentatiti per conservarsi il posto di borghese colto a cui la madre aveva tentato di portarlo, ma invano, perché non trovò altro impiego che quello di facchino […] Ricco non era stato mai, ma s’era trovato in condizioni nelle quali aveva potuto sognare di arrivare a stato migliore e altri a lui d’intorno, la madre principalmente, avevano sognato con lui”.

 

Il declino sociale di Giorgio è prestamente delineato: “ Aveva fatto due classi liceali, poi aveva abbandonato le scuole e in brevissimo tempo aveva dilapidato lo scarso peculio della madre”.

 

Come si può vedere, Giorgio, più che un operaio, è “tecnicamente” un piccolo borghese deluso nelle proprie aspettative impiegatizie. Come borghese “alla Svevo”,  egli coltiva in sé una sorta di abulia, di mancanza di volontà, ma anche una estrema, e in questo caso esiziale fragilità di nervi. L’assassinio di via Belpoggio narra infatti quanto di più mal congegnato un omicida possa mai concepire di fare. Tutto il racconto è infatti innervato sull’estremo nervosismo, addirittura sul panico totale che onnubila  la mente di Giorgio dopo il delitto. Intanto, il delitto stesso non è nemmeno premeditato, ma soltanto l’atto subitaneo ed irriflessivo di un individuo che non possiede alcun dominio delle proprie azioni, e che si lascia trascinare da un’idea istintiva in una frazione di secondo:

 

“Non ne aveva ancor ben concepita l’idea che già l’aveva posta in esecuzione”.

 

Per usare una parola sin troppo abusata, Giorgio è un inetto assoluto, il prototipo esemplare degli inetti sveviani.

 

Antonio Vacci (e non si capisce bene per quale ragione) aveva  pregato Giorgio di conservargli una notevole somma di denaro per qualche giorno. Quando glie la richiede indietro, Giorgio ha quello scatto subitaneo di cui abbiano parlato, dettato dall’improvvida quanto improvvisa  possibilità di poter finalmente mutare radicalmente la propria vita di povero facchino disoccupato: ciò lo induce a pugnalare il povero Antonio. Ma è subito dopo il delitto che Giorgio manifesta un’inettitudine assoluta nel coprire il suo gesto omicida. I suoi comportamenti sono del tutto sconsiderati,  perché dominati dal terrore per l’azione commessa. Fugge via a precipizio dal luogo del delitto, in preda ai pensieri più torbidi; completamente compreso in se stesso, si fa notare subito: urta, mentre cammina come un forsennato, una donna, e non si ferma neppure a chiedere scusa, mentre la donna inveisce violentemente contro di lui. La sua

 

“era una fuga smodata come se avesse avuto le guardie alle calcagna […] e sentiva che il sangue gli correva vertiginosamente nelle vene”.

 

Giorgio è letteralmente sotto shock: “Voleva riflettere ma non seppe che prenderne l’atteggiamento”.

 

In un primo tempo, Giorgio pensa di fuggire lontano, in Svizzera, e compra addirittura un biglietto del treno; poi ci ripensa, e decide di tornare a casa e di riprendere la sua solita vita, per non destare sospetti. A casa, nella stanza in cui vive con il suo collega Giovanni, non riesce a star calmo un momento. Dopo che il Giornalino locale pubblica un articolo in cui si dice che l’assassino potrebbe avere i capelli ricci e un vecchio cappello, secondo la descrizione datane da una donna che aveva visto schizzar via un tizio che l’aveva urtata, Giorgio è  preso dalla frenesia di liberarsi di tutto ciò che potrebbe farlo riconoscere: vuole radersi i capelli, e  buttar via il suo cappello. Ne compra anzi uno nuovo, ma non ha neanche la pazienza di provarlo: il cappello gli è troppo stretto, e, quando esce dal negozio del cappellaio, si dimentica di portarsi dietro quello vecchio. Cerca di costruirsi un alibi per l’ora del delitto, coinvolgendo con estrema goffaggine il collega Giovanni. A poco a poco, la sua inarrestabile irrequietezza desta i più gravi sospetti su si lui, che,  tormentato dalle furie del rimorso, alla fine si vede “perduto”,  e confessa il  delitto.

 

Insomma, Giorgio, come dicevamo, è storicamente un po’ il “padre” di tutti i borghesi nevrotici di Svevo, e in ciò aveva visto bene Carlo Bo.

 

Il racconto potrebbe poi essere storicamente importante anche sul versante stilistico. L’assassinio di via Belpoggio è infatti una prova ulteriore nonché esemplare del sostanziale stile “conservativo” della lingua di Svevo, per vari versi, come nelle opere mature, “arcaica” per lessico e sintassi, perché esemplata  su modelli, appunto,  superati:

 

“Non ardiva aprir bocca. Cribrava ogni parola” (L’assassinio di via Belpoggio, p. 230).

“Con grande gioia egli osservò che l’altro s’impazientava” (p. 230)

“Oh! Bisogna mutare di contegno” si disse (p. 229).

“Aveva dilapidato lo scarso peculio” (p. 225).

“Lo cercavano diggià?”.

“Ma senza commuoverlo o spaurirlo” (p. 225).

“Non gli sembrava  di essere stato lui l’uccisore” (p. 225).

“L’energia di menare quel colpo” (p. 221).

“era facile comprendere che descritto in tale guisa l’assassinio doveva commuovere tutta la città” (p. 231).

 

Già da questi parchi esempi si evince che la lingua di Svevo, come acutamente osservò Domenico Cernecca, era attardata. Svevo fu sempre molto sensibile alle critiche di quanti lo accusavano di “scrivere male”, ma,  sottolineò Cernecca, per mancanza di tempo e di mezzi economici adeguati, Svevo  scivolò “sul terreno di autori invecchiati o comunque inadatti al suo scopo, mettendosi fra le mani il vecchio Puoti con le sue regole e la sua grammatica e consultando i sinonimi del Tommaseo, cioè una raccolta di parole e di frasi avulse e lontane dal suo mondo di analisi interiore” (D. Cernecca).

 

Scrivendo il suo “Profilo autobiografico”, Svevo disse, tra le altre cose:

“Italo Svevo per lunghi anni fu collaboratore assiduo dell’Indipendente. Prima ancora di pubblicare Una Vita, godette una certa rinomanza di critico letterario nel piccolo ambiente cittadino […] Nell’Indipendente pubblicò anche una lunga novella [L’assassinio di Via  Belpoggio] ch’egli poi ritenne di scarso interesse” (Racconti-saggi, pagine sparse, p. 801). Svevo aveva torto, e Bo ragione; soltanto che, lo scrittore triestino nutrì sempre in cuor suo severi dubbi sulle proprie qualità di scrittore, come si evince da questo aneddoto tutto sommato divertente, in cui egli  “rinnega” se stesso:

 

“Io mi ricordo, scrisse Svevo, che pochi anni or sono un uomo d’affari interruppe le trattative serie in cui eravamo impegnati per domandarmi: ‘E’ vero che voi siete l’autore di due romanzi?’. Arrossii come sa arrossire un autore in quelle circostanze e, visto che l’affare mi premeva, dissi:

 

No! No! E’ un mio fratello” ( “Soggiorno londinese”, in Saggi, p. 693).

 

Grande Svevo!

 

Fonti:

C. Bo, Riflessioni critiche, Firenze, Sansoni, 1953, p. 450.

D. Cernecca, “Manzoni e Svevo di fronte al dialetto”, in Studia Romanica et Anglica Zagrabiensia, Zagreb, 1975, Vol. 39, p. 50.

Italo Svevo, “L’assassinio di via Belpoggio”, in Racconti-saggi, pagine sparse, a cura di Bruno Maier, Milano, Dall’Oglio, 1968, pp. 220-240.

 

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.