Lucio Vario Rufo, poeta del cavallo (ammaestrato)

Cavallo (senza morso)

 

Molti anni or sono Antonio Traglia, in un bell’articolo su Lucio Vario Rufo si soffermò su un frammento dello stesso Rufo che ha dato adito ad una quantità ragguardevole di giudizi pro e contro una “lezione” che illustrerò tra breve. Il passo incriminato è dunque contenuto nel seguente frammento:

 

“quem non ille sinit lentae moderator habenae

qua velit ire, sed angusto prius ore coercens

insultare docet campis fingitque morando”.

 

Il secolare problema sta nel secondo verso, dove, il termine “ore” dei manoscritti tràditi fu emendato dal  Torrentius ( al secolo il latinista fiammingo del Cinquecento Van Der Beken)  con “orbe”.

 

Ora, che cosa succede? Che ovviamente il senso del passo incriminato varia un po’, anche se non di molto, perché il significato generale è quello di un cavaliere che, tirando le “habenae”, cioè le briglie, si dà da fare per domare il suo cavallo.

 

Abbiamo qui due traduttori di indiscusso valore. Vediamo  la traduzione di Antonio Traglia che “accetta” la lezione dei codici (“ore”):

 

“( Sottinteso, “il cavallo”) Che il guidatore della flessibile briglia non lascia andare dove vuole, ma prima frenandolo nella bocca (“ore”), tenuta stretta, gli insegna a galoppare nella piana e trattenendolo lo ammaestra”.

 

Benissimo. Sentiamo ora invece  la traduzione di un altro illustre latinista, il prof. Marcello Gigante, che invece accetta l’emendamento di Torrentius (“orbe”):

 

“Il cavaliere che sa governare le morbide redini non lascia andare il cavallo dove vuole, ma prima lo frena con breve volteggio (“orbe”) e gli insegna a galoppare nell’aperto campo e con l’indugio  lo addestra”.

 

Tutte e due le traduzioni fanno onore al valore dei due insigni studiosi. Però, se devo essere sincero, parteggio spudoratamente per la lezione dei codici tràditi, che ci trasmettono “ore”, e che ci dicono che il cavallo era ammaestrato per via del dolore lancinante “nella bocca” (“ore”) provocato dal morso tirato dal cavaliere. E nel parteggiare per questa vetusta lezione,  mi stavo anche chiedendo se l’illustrissimo Torrentius sapeva com’erano i morsi che i cavalli romani si trovavano loro malgrado in bocca.

 

Per farsene un’idea basta leggere il saggio (con illustrazioni esemplari) di Giuseppe Cascarino, il quale, commentando tali morsi davvero terribili, affermò eufemisticamente che il morso del cavallo  era “severo”; e quanto severo fosse lo testimonia lo stesso Giuseppe Cascarino:

 

“ll morso (frenum) comunemente utilizzato era essenzialmente di due tipi: un filetto in ferro snodato, o più raramente a barra rigida, ma molto spesso dotato di cilindretti e rondelle per migliorare la salivazione (i cosiddetti giocattoli); l’altra frequente imboccatura, molto più complessa e dura, era costituita da barre snodate, ma sempre piene di rondelle d’ogni forma, e da lunghe guardie fermate al centro da una barretta, sia in ferro che ricoperta di bronzo, la quale veniva a posizionarsi sotto al mento come una sorta di barbozzale, ma senza permettere alle guardie di effettuare azione di leva. Spesso al montante della testiera veniva applicata, anche per semplice decorazione, una sorta di museruola metallica detta ‘psalion’, che, circondando tutto il muso, aveva lo scopo di impedire al cavallo di aprire la bocca e di sfuggire al morso. Questo tipo di imboccatura era piuttosto severo per il cavallo, ma consentiva al cavaliere di ottenere uno stretto controllo dell’animale anche tenendo le redini con una sola mano, di solito quella sinistra, che era la stessa con cui reggeva lo scudo”.

 

Pensiamo un po’ se, con questo tipo di bardatura in bocca,  il cavallo era “psicologicamente” pronto a far “volteggi”, come si evince dall’elegante prosa del prof. Gigante. In realtà, il povero “cavallo romano” obbediva “ciecamente”, perché bastava una sia pur lieve tirata del terribile morso che il meschino di trovava in bocca. Per questo, al cavaliere era estremamente facile far obbedire il cavallo semplicemente “ ore coercens”, ossia “frenandolo nella bocca” ( A. Traglia), e facendogli fare tutto quel che voleva. Il “morso” romano era “severo per il cavallo”, ed era lo strumento principe per domarlo. Quanto ai “volteggi” (“orbe”), sì, il cavallo poteva anche farli, ma sempre per via del morso.

 

Il prof. Traglia, in nota, ci erudisce anche sul fatto che il Buechner accettò l’emendamento di Torrentius (“orbe”), ma che il Morel lo rifiutò spietatamente.

 

E secondo me Morel aveva ragione, da vendere.

 

Fonti:

 

  1. Traglia, “Lucio Vario Rufo poeta epico”, in “Cultura e Scuola”. Luglio-settembre 1986, no. 99, pp. 60-67. Per la citazione, p. 63 e nota 17.

 

  1. Gigante, “Virgilio e i suoi amici tra Napoli e Ercolano”, in “Altre ricerche Filodemee”. Presentazione di F. Tessitore, Napoli, Gaetano Macchiaroli Editore, 1998, p. 79.

 

  1. Cascarino, “La cavalleria Romana”, in “Equus Frenatus. Morsi della Collezione Giannelli”, Breno-Brescia, Tipografia Comunale, 2015, pp. 130-133. Con bellissime ed illuminanti illustrazioni dei vari tipi di “morso” che i “cavalli romani” erano costretti a [sop] portare in bocca.

 

 

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.