Per un’interpretazione di “Ècci venuto Guido [’n] Compastello” di Niccola Muscia

Un sonetto satirico su Guido Cavalcanti

 

Ècci venuto Guido [’n] Compastello,

o ha.rrecato a vender canovacci?

Ch’e’ va com’oca, e càscali ’l mantello,

ben par ch’e’.ssia fattor de’ Rusticacci.

5 È in bando di Firenze, od è rubello,

o dòttasi che ’l popol no.l ne cacci?

Ben par ch’e’ sappia torni del camello,

ché.ss’è partito sanza dicer: – Vàcci! –

Sa.Iacopo sdegnò quando l’udìo,

10 ed egli stesso si fece malato,

ma dice pur che non v’era botìo.

E quando fu a.nNimisi arrenato

vendé [e] cavalli, e no.lli diè per Dio,

e trassesi li sproni ed è albergato.

 

Secondo quel che emerge  dall’ironico sonetto di Niccola Muscia, il periodo del supposto pellegrinaggio a Santiago di Compostella di Cavalcanti sarebbe avvenuto post 1293: È in bando di Firenze, od è rubello, o dòttasi che ’l popol no ’l ne cacci? Cioè, fu sbandito da Firenze,  si ribellò, o forse temette d’essere cacciato di città  a furor di popolo?  Tutto lascerebbe pensare, con De Robertis,  che il “pellegrinaggio” potesse essere stato compiuto “dopo” il 1293, cioè per irritazione dovuta ai primi Ordinamenti del 1293 di Giano della Bella, che escludevano i Grandi dal governo del Comune (1).

Inoltre, il Muscia  ha tramesso alla posterità un’ inarrivabile caricatura di Cavalcanti [Ch’e’ va com’oca, e càscali ’l mantello, ben par ch’e’ ssia fattor de’ Rusticacci], d’un realismo straordinario.  Da come ce lo rappresenta il Muscia, Guido Cavalcanti doveva essere piuttosto alto, con un’andatura  dinoccolata e il “collo lungo” e “ondeggiante”, proprio come quello di un’oca.  Il mantello del dominus era buttato sulle spalle un po’ alla brava, senza guardar troppo all’etichetta. Il che conferma la natura del carattere del tutto particolare del Cavalcanti  (su cui siamo ben informati dal Boccaccio) sempre assorto e pensieroso, con la mente tra le “nuvole” come quel suo antico emulo d’aristofanesca memoria:  quindi, poco attento, probabilmente, anche all’aspetto esteriore, tanto da sembrare un campagnolo: un “fattore” d’Alberto Rusticacci, dice il nostro sapido quanto maligno Muscia.

Apro ora una parentesi sulla questione dei “torni del camello” (v. 7) su cui molto s’è detto, scritto, e congetturato, perché la cosa ci condurrà, come vedremo tra poco, verso quelle sponde eretiche alle quali il dominus  approdò senza più staccarsene. Mauro Scarabelli, riguardo al “camello”,  si rifà ai Bestiari  e a uno “struzzo” che  “ae  facti li piedi como camelo” (2); ma la congettura, seppur ingegnosa,  ha scarsa attinenza con quanto dice Muscia, il quale, si osservi,  si sta diffondendo, con sadica ironia, sul leggendario pellegrinaggio di Cavalcanti a San Giacomo di Compostella in Galizia. In tal senso,  i “camelli”, così come li intendiamo comunemente, c’entrano, e proprio in relazione ai pellegrinaggi  (3).

Il Muscia probabilmente si riferiva ai “sette giri [torni] di cammello” che fece Maometto “intorno”  alla Caaba , e alla susseguente istituzione del “pellegrinaggio” mussulmano alla Mecca stessa, che appunto prevedeva sette  “giri” o “torni” intorno  alla Caaba . La questione dei “camelli” fu narrata distesamente nella “Vita di Maometto”, pubblicata a Venezia nel 1772,  nella quale si legge che

“essendo Maometto salito sul colle di Cadà ch’ era parte del monte detto Hajun, ove cominciano le alture della Mecca, e poscia essendo entrato pianura delle Piccole Selci,  montò sopra il suo cammello nominato Kassva e cominciò la sua solenne marcia o sia processione verso la Città […] Essendo terminati i sette giri intorno al Caaba,  Maometro ordinò a Belal suo banditore di dare avviso del tempo della preghiera fuori del Caaba; il che essendosi parimente fatto, il Profeta montò sopra il suo cammello e corse sette volte fra le montagne di Safà e Mervvá parte con un passo lento e parte correndo in fretta […]  Laonde chiunque si porta in pellegrinaggio al tempio della Mecca oppure lo visita non avrà più alcun peccato qualora si faccia a girarli amendue. Si dice che questa cerimonia sia tanto antica quanto il tempo di Hagar madre d’Ismaele ” [Corsivi miei] (4).

Equiparando il pellegrinaggio di Guido a quello dei mussulmani alla Mecca, è evidente che il Muscia calcava la mano sulla (molto) dubbia ortodossia e sulla larga fama di  “eretico” di Guido Cavalcanti. “Ben par ch’e’ sappia/ [li] torni del camello” (5): sembra conosca bene i giri (“li” torni) che il  cammello deve compiere intorno alla Caaba); sembra, cioè, dice Muscia, che Cavalcanti conosca molto bene i rituali islamici; e quanto al cammello “ché.ss’è partito sanza dicer: – Vàcci!”,  il Muscia, il quale, dobbiamo riconoscerlo, mostra d’essere molto informato sui rituali mussulmani, si riferisce a un versetto del Corano, che, soffermandosi appunto sull’importanza fondamentale del pellegrinaggio, così dice:

“28. Annunzia ai popoli il pellegrinaggio (della Casa Santa), che vi giungano a piedi , o montati su de’ cammelli veloci a camminare , venendo da contrade lontane” (6).

Il  Muscia quindi lascia intendere che Guido lasciò Firenze in tutta fretta e alla stessa velocità dei cammelli provenienti  da ogni contrada d’Arabia  (7).  Il dominus,  dice ironicamente il Muscia,  s’era “lanciato” (come un veloce cammello) verso  il  “pellegrinaggio” senza alcun sacerdotale “Ite” (“Vacci!”), o “licenza” ecclesiastica, che prevedeva un preciso rituale,   mostrando solo una gran fretta di lasciare la città (8).

Ma v’è un altro aspetto che mette in  relazione il “camello” con il Santo di Galizia:

“Sanctus Jacobus camelo similis”.

San Giacomo era “simile” ai cammelli perché aveva i calli alle ginocchia e persino sulla fronte a forza di preghiere (in ginocchio) e genuflessioni fin sul pavimento (con la fronte a terra). Augustinus Paolelli ci ragguaglia sul fatto che San Giacomo pregava l’Altissimo giorno e notte sia per i fedeli sia per la conversione degli infedeli; e la preghiera era talmente assidua che gli vennero i calli alle ginocchia come ai cammelli [“In orationibus noctes scil. diesque, precando Altissimum pro perseverantia fidelium, pro infidelium conversione idemque, tanta cum assiduitate ‘ut callos in genibus more camelorum videretur habere’” (9).

Inoltre, continua Augustinus, i calli ai ginocchi dei cammelli non sono “naturali”, ma “artificiali”, perché i cammelli devono inginocchiarsi, con umiltà e docilmente, spesso per permettere ai portatori di caricare su di essi le merci più rapidamente e con maggior “comodità” dei proprietari. I calli ai ginocchi dei cammelli sono dunque la prova delle fatiche e dei “danni” fisici cui vanno incontro codesti animali; il tutto  per la “comodità” dei loro padroni. Ma perché, si chiedeva il nostro Augustinus,  San Giacomo aveva i calli alle ginocchia? Risposta: per le stesse ragioni, cioè per l’ umiltà e per la profonda carità cristiana che lo contraddistingueva: egli cioè pregava incessantemente in ginocchio a pro di tutti, senza badare ai danni che procurava a se stesso, con l’unico fine della salvezza delle anime [Sed cur camelorum more? Calli camelo non sunt naturales, sed artificiales, quia ut refert Vinc. Bellovacensi : ‘Quando oneratur ut brevior et humilus fiat accubat’. Igitur cameli ob nullam aliam causam callos in genibus accipiunt, quam quod dum sarcinis sunt onerandi, ut breviores fiant, in genua pervolvuntur, quod totum cum damno proprio, cum aliorum vero commodo faciunt. Et ob easdem quoque causas Jacobus callos in genibus more camelorum habebat. Unde ingens eius quam ardebat charitas eum ut ad bonum alienum proximi, non vero ad malum suiipsius respiceret, permovebat …”].

San Giacomo dunque pregava assiduamente notte e giorno con le ginocchia piegate sul pavimento, ma anche prostrandosi con la fronte a terra, procurandosi anche qui i calli: “ Unde Chrisost: “Ita assiduitate orationis jugisque ad pavimentum prostratione corporis frontem callo similiter obductam, ut nihil fere a Cameli genibus discreparet’”.

La spiegazione del verso in cui si dice che persino San Giacomo “si sdegnò” quando sentì parlare Cavalcanti (Sa.Iacopo sdegnò quando l’udìo), sta nel fatto che il santo, sempre pronto a perdonare tutti i peccatori, e persino coloro che lo lapidarono, gridando “Rogo te Domine Deus, remitte illu, quia nesciunt quid faciunt”, vide in Guido un peccatore assoluto, non salvabile, un “eretico” irredimibile, al punto tale, dice protervo il Muscia, da sdegnarlo e allontanarlo da sé. E sì che S. Jacobus si mostrò generoso con “tutti”, pronto a raccomandare a Dio persino i nemici, chiedendo venia dei loro delitti [“suos Deo inimicos recommendare”, e “veniam delictorum suorum impetrare”]. “S. Jacobus pro se nihil postulavit, hoc solum contentus”; se, cioè “eosdem e peccati infidelitatis carcere manibusque Sathanae eripere posset”. San Giacomo non chiedeva nulla per sé, ma era solo contento di sottrarre tutti dal peccato d’infedeltà e dalle mani di Satana.  Ma si vede che, sin dalle prime parole di Cavalcanti, il Santo capì ch’era impossibile sottrarlo “e manibus Sathanae”, per cui lo ripudiò, allontanandolo da sé; in ciò imitando il comportamento di Marco Ulpio Traiano, il quale fu disponibile a donare anche l’ultima sua camicia se fosse servita a tamponare le ferite di uno dei suoi soldati; ma, sottolineava Augustino Paoletti, Ulpio Traiano era sì disponibile a dare anche la “propriam unicam camisiam”; ma “non inimicis sed ei  obsequentibus militibus suis” [ ma non ai nemici, ma solo a quei soldati che gli si fossero dimostrati obbedienti]. Siccome, però, Sanctus Jacobus s’era accorto che anche a dar via l’ ultima camicia a un personaggio come Cavalcanti non sarebbe riuscito a farne un “obsequens” della fede, tanto valeva abbandonarlo al proprio destino di eretico impenitente. E qui mi pare che il Muscia abbia voluto calcare molto la mano sulla distanza siderale che separava Guido dall’ortodossia. Se persino Santus Jacobus, che era un inesausto combattente “strenuus bellator”, abituato a “faciem non dorsum hosti obvertendo intrepide dimicaverit” [avvezzo ad affrontare a viso aperto il nemico, e a non dargli mai di schiena] (p. 173), s’era alla fine arreso, ciò significa che anche il Santo di Santiago di Compostella, in Galizia, riconosceva che con Cavalcanti non c’era nulla da fare. Per di più, insinua bieco il Muscia “satiro”,  il pellegrinaggio di Cavalcanti non fu compiuto per devozione, ma sol per vendere merce, e anche di scarsa qualità ( c’era andato “a vender canovacci”); tanto che lo stesso  “San Iacopo” si “sdegnò quando l’udìo”: quando, cioè, il santo orecchiò i reali propositi di quel pellegrinaggio: quasi una “fuga” da Firenze, e con addentellati vilmente “mercantili”, per nulla legati alla fede.

Cavalcanti stesso, in seguito, interruppe senza troppi rimpianti quel suo “finto” pellegrinaggio dettato essenzialmente da scopi inconfessabili (ma che San Giacomo intuì), poiché, in fondo,  non v’era stato voto alcuno da parte sua (non era cioè “vincolato  da un voto” (10) : trovò una scusa e si dette infatti malato, vendette i cavalli, e si fermò infine in un albergo a poltrire.

In sostanza, il pellegrinaggio di Cavalcanti a San Iacopo fu tradotto in una vera e propria scena farsesca dal Muscia, al quale bisogna proprio riconoscere una vena satirica non comune. Al di là, tuttavia,  della questione dei “cammelli” e del generale tono farsesco,  ciò che emerge abbastanza chiaramente dal sonetto del Muscia è il fatto  che Cavalcanti fosse in Florentia “ante” 1293, e almeno fino alla promulgazione del primo testo degli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella, approvato il 18 gennaio 1293  (11):  ci sono ottime ragioni per ritenere che Cavalcanti, probabilmente nella primavera del 1293, a qualche mese dal fatale 18 gennaio, avesse deciso di andarsene insalutato ospite e con la velocità d’un agile cammello da Firenze,  almeno per un qualche tempo. Tanta velocità d’esecuzione gli fu dettata  non solo per odio intrinseco agli Ordinamenti “contra Magnates”, in generale; ma anche per non sottostare a certe “rubriche” molto fastidiose e “pericolose” soprattutto per un personaggio come lui, perché si poteva essere accusati di non adempiere alla legge “per duos testes de publica voce et fama”. Ora, spiega Luzzatto, “si distinguevano i testimoni di verità, che testimoniavano di cose conosciute direttamente, dai testimoni di pubblica fama, che testimoniavano soltanto seguendo la voce pubblica” (12). Erano probabilmente i secondi dei quali temeva il dominus, vista la “dubbia”  fama di cui godeva a Firenze, e della quale il sonetto del Muscia è prova lampante, specie laddove accenna anche al fatto che Guido potesse essere stato cacciato da Firenze a furor di popolo (o dòttasi che ’l popol no.l ne cacci?). E sulla “cacciata” di supposti “eretici” per rivolte popolari  eran piene le cronache. In tal senso, scriveva Ovidio Capitani,

“è molto significativo il saggio del Manselli […] su Aspetti e significato dell’intolleranza popolare nei secoli XI-XIII, che richiama l’attenzione sulla circostanza che forme di autentica esplosione ‘popolare’ contro gli eretici contraddistinsero proprio molti di quei fenomeni di devianza del ‘primo periodo’  della storia dell’eterodossia in Occidente” (13). Nella lista dei Grandi di Sesto di San Pier Scheraggio (14), i Cavalcanti figurano al primo posto, in posizione sicuramente “eminente”, ma anche di forte “esposizione” ai “testes de publica voce et fama”; e il sonetto del Muscia, docet! Un cambiamento d’aria, almeno per i primi tempi, apparve sicuramente un’idea brillante a Cavalcanti, al quale non era certo ignoto quanto era successo in anni molto a lui propinqui (1280-1286) a “tal Saraceno Paganelli, incolpato di eresia con gli eretici patarini” (15); e non dimenticando il fatto che Firenze “era la sede dell’episcopato cataro della Toscana e dell’Umbria”  (16).

Il pericolo era sicuramente reale, perché, come dice Manselli, la  “pressione inquisitoriale […] doveva in meno di un secolo spegnere ogni traccia di eresia catara in Firenze”  ( 17). Nel processo contro il Paganelli un “teste di verità” fu tal “Charella”: “Sextus decimus: Item (unus testis alius de predictis) Charella predicta dicit quod vidit dictum Saracenum adorare hereticos et hereticas consolatos in domo (quadam Pisis)”  ( 18). Né, infine, saran da scordare gli obscuri “riflessi” ereticali baluginanti  dal suo soggiorno a Tolosa, ove Guido conobbe la Mandetta dai fianchi stretti (stretta accordellata): ’I fui in Tolosa, cantò l’incauto: ma  dire “Tolosa” era come dire “Albigenses”, cioè “eretici catari” ( 19), per cui la di lui fama d’eretico paterino-cataro-epicureo viepiù s’espandeva  in quella Florentia ove la “vox populi” o  “publica voce et fama” poteva arrecargli esiti non propriamente felici, specie in tempi arroventati da una furiosa lotta politica in cui nulla era lasciato d’intentato pur di abbattere l’avversario.

 

Note

1)      Pär Larson, “Ècci venuto Guido [‘n] Compastello”, in Per leggere,  2004, n. VII, pp.  5-12: p. 7. Il testo è quello approntato da Larson.

2)      Mauro Scarabelli, “Il ‘Cammello’ e il falso pellegrino. Chiose su ‘Ècci venuto Guido [‘n] Compastello’ di Niccola Muscia”, in Lettere Italiane, 2009, n. 1, pp. 110-126: p. 117.

3)      Per le varie congetture “senza soluzione definitiva”, cfr. Pär Larson, Ècci venuto Guido [‘n] Compastello, cit., p. 7.

4)      “La Vita di Maometto”, in Storia Universale, Volume Vigesimo Terzo (Parte Moderna, ossia Continuazione della Storia Universale dal principio del Mondo sino al presente), Amsterdam.  A spese di Antonio Foglierini, Librajo in Venezia,  MDCCLXXII [1772], Volume Primo, pp. 138-139. Su Maometto che “a dorso di cammello” s’avviava verso il Santuario le fonti sono concordi; cfr. Armando Saitta, “L’ora dell’Islam e la dottrina di Maometto”, in Profilo di 2000 anni di storia, Giustiniano e Maometto, Bari, Laterza, 1982, Volume Terzo, p. 248; e Francesco Gabrieli, “Maometto e l’Islàm”, in Gli Arabi, Firenze, Sansoni, 1975,  p. 43.

5)      Integrerei il testo con  un “li”, che rende il verso un perfetto endecasillabo a minore [cinque + sette), facendolo peraltro scorrere molto più agilmente.

6)      “Capitolo XXII. Il Pellegrinaggio della Mecca”, in Il Corano. Versione italiana del Cav. Commend. Vincenzo Calza, Bastia, Dalla Tipografia di Cesare Fabiani, 1847, p. 1669.

7)      George Foot Moore  si soffermò anche sulla “velocità” che caratterizza il rituale: “Il pellegrino si avanza verso la piazza che circonda la Kaaba […]  Quindi, cominciando dalla destra, fa correndo sette volte il giro del sacro edificio […] [Poi] viene la corsa tra Safa e Nerwa, due basse colline ai lati opposti della vale, circa cinquecento metri distanti l’una dall’altra: anche questa corsa deve ripetersi sette volte […] e con la massima velocita di cui l’individuo è capace” ( George Foot Moore, L’Islamismo, Bari, Laterza, 1965, p. 110).

8)      Concordo con Larson, laddove dice che “ite” non segna la “fine”, bensì  “l’inizio del pellegrinaggio”. Cfr. Pär Larson, Ècci venuto Guido …,  cit., p. 8, e p. 11 nota 13.

9)      “Sermo duodecimus. In Festo Sanctorum Apostolorum Jacobi & Philippi”, in Sanctuarium, hoc est Sermones utilissimi, & omni conceptuum genere resertissimi, Panegyrici Sanctorum Omnium, Edidit opera, studio & industria Augustini Paoletti, Coloniae Agrippinae, Apud Joannem Busaeum Bibliopolam, MDCLXII, pp. 174-175.

10)    Pär Larson, Ècci venuto Guido …,  cit., p. 8.

11)    Dino Compagni Cronica, Introduzione e note di Gino Luzzatto, Torino, Einaudi, 1968, p. 26 nota 12.

12)    Ibidem.

13)    Cfr. Ovidio Capitani, “Introduzione” a Medioevo ereticale, Bologna, Il Mulino, 1977,  p. 10.

14)    Cfr. Gaetano Salvemini, Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1295, Firenze, Tipografia Carnesecchi e Figli, 1899,  p. 376.

15)    Raoul Manselli, “Per la storia dell’eresia catara nella Firenze del tempo di Dante. . Il processo contro Saraceno Paganelli, in Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano, 1950, n. 62,  p. 124.

16)    Ivi, p. 129.

17)    Ivi, p. 131.

18)    Ivi, p. 137.

19)    Christine Thouzellier, “Albigenses”, in Medioevo ereticale, cit. Si diceva Albigenses, ma “l’enunciato delle condanne prende di mira le regioni di ‘Tolosa’ in cui l’errore recentemente emerso si diffuse in ‘Guascogna’ e altre province … In partibus Tolosae Tolosae damnanda haeresis dudum emersit”, p. 280 e nota 10.

 

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.