Polemiche e battaglie su Guido Cavalcanti (I)

Si presenta qui la prima parte (I) di un più lungo saggio che ha per oggetto, come si evince dal titolo, le polemiche che si scatenarono nel tempo sulla poesia di Guido Cavalcanti.

Tra Donne ch’avete intelletto d’amor (Dante)

e Donna me  prega (Cavalcanti)                                                        

Quale delle due fu scritta prima?

La questione del contendere è “se” Dante possa aver  dato una risposta “in opposizione” alla “razionalista” Donna me prega di Cavalcanti già nella Vita Nuova; oppure se Donna me prega fosse stata la “risposta” di Cavalcanti a un “qualcosa” che Dante stesso avrebbe fatto intendere nel libello.

 

Fu Donna ma prega il testo polemizzante?

 

Il secondo De Robertis non escluse che, con Donna me prega,  fosse “in atto una sottile contestazione della Vita Nuova. Se fosse possibile avvicinare cronologicamente la canzone di Guido al libello di Dante, sarebbe anche forse legittimata la congettura che quella sia stata concepita e scritta in funzione di replica all’operetta dantesca, ovviamente sul piano astratto dei principi generali ed evitando ogni contestazione” (1).

Cominciamo allora dalla prima premessa di De Robertis: se cioè si possa “avvicinare cronologicamente la canzone di Guido al libello di Dante”. Le esitazioni di De Robertis relative alla cronologia (interna ed esterna)  della Vita Nuova non erano  campate in aria, per nulla.  Nel discorrere di un tema che  va  a coinvolgere la Vita Nuova e l’indubbia “vaghezza” del libello, si sfocia però talora nella dissipazione d’ogni possibilità di stabilirne alcunché di certo. E’ evidente che le parole di Maria Corti nelle “Esposizioni sopra Dante” di Eugenio Montale , in occasione del VII centenario della nascita del poeta, hanno prodotto sicuri effetti sulla critica contemporanea, specie laddove la studiosa sottolineava come Dante si fosse fatto guidare, nella composizione del libello, da “uno spiritello della mistificazione”; e poiché “Dante sarebbe stato un uomo che inventò se stesso”, si registrava il valore fondamentale dell’ermeneutica applicata “all’opera di Dante: solo proposte e ipotesi complementari consentono di penetrare in un contesto poetico senza violentarne la fondamentale e necessaria ambiguità”  (2).

Uno dei problemi più intriganti riguardo la Vita Nuova s’insinua sulla questione del “tempo” e dello “spazio” ad essa pertinenti. E’ noto da sempre che i “tempi” della Vita Nuova sono apparsi per molti aspetti “sospetti”. Valga per tutti la notazione di Dino Cervigni:

“ Among the most general temporal phrases we have: ‘in quello tempo’, ‘in quello punto’, ‘uno giorno’, ‘allora’, ‘appresso’, ‘quando’, ‘e poi che’, ‘dipoi’, etc. All chapters begin with some form of temporal reference, however vague, except XVIII, XXV, and XXVI” (3). “In terms of a genuine temporal succession, i.e. in accordance with the measure of movement following a prius and post, the story presented in the Vita Nuova unquestionably hovers in a temporal vacuum” (4).

Sul fatto che la Vita Nuova si muova “senza dubbio” in un assoluto “vuoto temporale”, avrei, invece,  “qualche” dubbio, perché non tutto in essa  è temporalmente evanescente.  La questione dell’ “evanescenza” delle date della Vita Nuova è stata ripresa anche in anni non lontani da Valeria Bertolucci Pizzorusso, che riprende le problematiche sopra esposte relative ai rapporti della Vita Nuova con il Convivio. La Bertolucci Pizzorusso  osserva,  per esempio, che “Dante non dà mai neppure le coordinate spaziali della vicenda: benché sia ovvia l’ambientazione fiorentina, nessun ancoraggio esplicito a questa città, che resta una cittade indeterminata” (5). Il che non è poi così vero “in assoluto”: nel testo, certo , si parla in molte occasioni d’una “cittade” indeterminata; ma poi, a un certo punto,  emerge che la “generica” cittade è proprio la “cittade ove nacque e vivette e morìo la gentilissima donna” [“alquanti peregrini passavano per una via, la quale è quasi mezzo de la cittade ove nacque e vivette e morìo la gentilissima donna” (6). Mi pare che qui Dante sia piuttosto esplicito, nonostante, come diceva Sanguineti, un’indubbia tendenza del poeta al “fitto giuoco perifrastico” (7). Leggere la “cittade” come Firenze non appare certo un rebus, anche se, chiosava ancora Sanguineti, “gli spazi della Vita Nuova, dalla cittade medesima, sempre indeterminatamente offerta”, si determinano “esclusivamente come ‘la cittade ove la mia donna fue posta da l’altissimo sire’” (8). “Solita” perifrasi, ma “solide” coordinate geografiche. Un caso esemplare rientrante nel “fitto giuoco perifrastico” cui accennava Sanguineti è il seguente (Vita Nuova XXXV): “In quel giorno nel quale compieva l’anno che quella divina era fatta cittadina di vita eterna, io mi siedeva in parte nella quale, ricordandomi di lei, io disegnava un angelo sopra certe tavolette”. Fuor di “fitto giuoco perifrastico”, il passo altro non significa che, inventatosi pittore, Dante si mise a disegnare angeli “a un anno esatto” dalla morte di Beatrice, e persino nello stesso giorno della di lei dipartita. Quindi, sportarsi al giugno del 1291 non pare esercizio impraticabile.

Altro esempio d’incredulità:

“ La cronologia dantesca relativa alla data di composizione delle singole opere è delle più incerte ed instabili. Non si ha nessuna  dichiarazione diretta , cioè dello stesso autore, sull’epoca della loro composizione”  (9).  Nel caso di Ciascun’alma presa, il dato fornito da Dante rinvierebbe al 1283:  avendo egli visto Beatrice a nove anni, e poi dopo altri nove, ciò “significherebbe” che Dante fosse sui diciotto anni, e quindi “dovremmo” essere intorno al 1283. Che poi, sempre per la solita questione del “tre” e dei suoi multipli (in particolare il nove), anziché 18, ne avesse avuto 19 o venti di anni saremmo,  “comunque”, entro la prima metà degli anni ’80 del Duecento: se non proprio nel 1283; magari nel 1284, ma la perifrasi temporale, come diceva Giorgio Padoan è “indicativa” e perfettamente credibile, essendo iniziata in quel giro d’anni la sua frequentazione con Cavalcanti (10) . Il 1283 fu ritenuto “sospetto”, tra le altre cose, perché vi fu una risposta al sonetto dantesco attribuita a Cino da Pistoia (Naturalmente chere)  , il quale, essendo “per tradizione” nato nel 1270, avrebbe avuto solo tredici anni nel 1283. La cosa è apparsa da sempre poco credibile, a cominciare da Carducci, per cui s’ è optato per altro rimatore occulto, forse Terino da Castelfiorentino, non intervenendo sulla data suggerita da Dante, e non forzando giustamente il testo.

Sulla questione della data di nascita di Cino da Pistoia s’è discusso parecchio; ma sarebbe da rivedere al proposito un bell’intervento di Luigi Chiappelli,  secondo il quale “sarà da ritenersi piuttosto che il Sinibuldi nacque ‘verso’ il 1270. Ed è molto probabile questa nostra supposizione dal momento che  egli nel 1283 rispose col Sonetto Naturalmente chere ogni amadore” (11). Anche Guido Zaccagnini,   con argomenti pregevoli (e basandosi sulla concordanza dei codici), retrodatava la  nascita di Cino al 1265, per cui egli sarebbe stato coetaneo di Dante:

“Raccogliendo le sparse fila di questa complessa dissertazione, possiamo concludere che, se nel 1283, quando Dante invitò i rimatori del tempo a chiarirgli la proposta visione, Cino era fra i diciotto e i venti anni” (12).

“Ma queste indicazioni rinviano a una cronologia reale, insiste la Pizzorusso,  o non possono rinviare piuttosto ad un ordinamento artificioso costruito dall’autore?” (13).

A mio avviso le indicazioni temporali e spaziali furono avvolte da Dante volutamente in una cortina fumogena non solo perché egli sfruttò dei “topoi” largamente diffusi: si pensi, per esempio, riguardo agli spazi “privati”, alla di lui famosa “cameretta”, ove andava spesso a rifugiarsi nei momenti più critici del suo innamoramento.  Charles D’Orléans faceva più o meno la stessa cosa negli stessi frangenti, asserendo d’andar spesso a rinchiudersi nella sua “prigione o camera da letto” a piangere e lagrimar (14).   Ma c’è anche il fatto, non secondario nel carattere di Dante, che il nostro giovin poeta teneva moltissimo alla sua “privacy” (era cioè un tipo che sapeva “tacere” quel che non voleva assolutamente dire); e ben sapendo che il suo libello sarebbe comunque venuto alle mani di molti, “sfumò” per quanto gli fu possibile tempi e luoghi. D’altra parte, la volontà di Dante il giovane di “schermare” gli eventi propri da occhi “curiosi” è un leit-motiv della Vita Nuova (e le “donne dello schermo” una prova inconfutabile): di qui le indicazioni temporali e spaziali “indistinte” del mondo reale, ma  che pure esisteva oltre il “filtro” non proprio impenetrabile attivato dall’autore, il quale purtuttavia “costrinse” la realtà esterna entro un’informazione estremamente selettiva. L’allusività del linguaggio crea un effetto di “fascinazione” che non dev’essere dispiaciuto per nulla a Dante, che in tal modo rendeva (poeticamente) un momento assolutamente “fantastico” (nel senso che sbrigliò la sua fantasia) della sua esperienza giovanile, che, proprio per la sua eccezionalità, rinvia a un tempo nostalgicamente e irrimediabilmente per sempre “perduto” . Ernesto Livorni, in un saggio molto pregevole sotto il profilo dell’analisi stilistica dell’incipit della Vita Nuova, scrive al proposito:

“Il tempo de La Vita Nuova è quello di un passato rivissuto, di un passato che continua a far sentire la sua presenza in un tempo che non è più suo, così che tale percezione temporale è persa insieme a quella spaziale […] Dante sembra impostare il discorso su un doppio binario: tanto più nel testo egli si sofferma in descrizioni particolari per definire lo spazio e il tempo in cui l’azione si svolge […] tanto più essi restano indefiniti e vagamente indicati, da cui deriva lo scarto che caratterizza il suo stile poetico. Nel momento stesso in cui egli vuole sottolineare con precisione la sua materia, con un abile gioco stilistico lo nasconde dietro cortine di indefinita consistenza” (15). Dante stesso avverte nell’incipit che nella rubrica della sua memoria egli trova scritte le parole che “ è [suo] intendimento d’assemplare in questo libello, se non tutte, almeno la loro sentenzia”. Sentenzia, da sententia, è un latinismo  (16),  che può esprimere anche un “voluto nascondimeno” delle cose, osserva Livorni: è il “nascondere” (sententiam fronte (celare) tegere) di Cicerone, ossia l’esatto opposto del detto “sententiam suam aperire”, “se aperire” (to betray oneself=disvelare se stesso a tutti) (17).

Insomma, la Vita Nuova, chiosa Sanguineti, “ è il momento […] di una poetica crittografia, in cui ai misteriosi indizi, ai segni prodigiosi […], si sostituisce, piuttosto che aggiungersi, la dissimulazione calcolata, l’ occultarsi della verità dietro veli di ampia declamazione, appoggiata a spunti marginali, a occasioni pretestuose: è il tempo, veramente, di una poesia dello ‘schermo’” (18). In conclusione, un atteggiamento prudenziale, per quanto s’è detto, è pur sempre doveroso, ma sfumare “tutta” la Vita Nuova in un’atmosfera da cui non sarebbe possibile ricavare alcunché  d’ “esterno” a Dante stesso è lanciarsi in acrobazie interpretative che, alla fine, lasciano soltanto spazio a un’ermeneutica  un po’  “creativa”; anche perché a quel 1283 tanto discusso s’è arrivati per vie esterne che alla fine hanno confermato le allusive indicazioni temporali fornite da Dante. Per esempio, in un importante lavoro dei nostri sempre validissimi studiosi della scuola storica leggiamo  da un documento notarile fornitoci  da Luigi Gentile nel 1891 :

“1283. – Dante del già Alighieri del popolo di S. Martino del Vescovo, come herede del padre, vende il Tedaldo del già Orlando Rustichelli ogni azione che egli havea reale e personale contro a Donato del già Gherardo del Papa, e sopra certi suoi beni nel popolo di S.ta Maria a  Ortignano …” (19). “Ma che età aveva il Poeta, quando nel 1283 costituivasi personalmente a quel contratto dinanzi al notaio?”, si chiedeva diligentemente Luigi Gentile. La risposta è che Dante, nel 1283 aveva esattamente 18 anni, perché era proprio a quell’età che si poteva adire a contratti notarili:

“Sappiamo di certo, che per gli statuti fiorentini (i quali in ciò derogavano al giure romano) l’orfano di padre usciva di pupillo a diciott’anni compiuti […] Questi documenti, per conchiudere, dicono chiaro, che il compimento del diciottesimo anno della vita di Dante, a lui memorabilissimo per la seconda apparizione di Beatrice, è proprio da porre nel 1283 ; e quindi confermano a chi ancora ne dubitasse, che Dante veramente nacque l’anno 1265, nella stagione che il sole nasce e s’asconde in compagnia delle ‘gloriose stelle’ dei Gèmini” (20).

E’ fuor di dubbio che non è facile  cimentarsi con la Vita Nuova per ricavarne date “certe”. Il fatto che essa fosse stata definita libellus, la qualifica inevitabilmente come Libellus memorialis  (21), ossia come un “libretto di memorie” su cui Dante lavorò sistemando sia le liriche sia le prose secondo un suo disegno interiore (ne riparleremo), e in nome di una inossidabile tendenza a una pudica “privacy” .

Inventariato che, tuttavia,  la Vita Nuova ci pone qualche ostacolo temporale , direi che,  per giungere a una risposta soddisfacente sul quesito derobertisiano,  i termini del problema potrebbero essere impostati diversamente, e chiedersi: sarebbe possibile “avvicinare cronologicamente la canzone di Guido” non alla Vita Nuova, ma “solo” a Donne ch’avete, ritenuta da taluni il testo con cui Donna me prega entrò in polemica, e da altri il testo polemizzante?  Il problema, se così posto, potrebbe avere una sua soluzione pressoché immediata; e cioè: non vi fu lunga distanza temporale fra Donne ch’avete e Donna me prega; e dico “non vi fu” e non “non vi sarebbe stata” perché i giuochi fra le due summenzionate liriche si fecero, e si conclusero, “oggettivamente” senza se e senza ma, in un giro strettissimo di anni: ciò a prescindere dalla vexata quaestio (che qui affronteremo ad abundantiam) “se” l’una avesse preceduto l’altra o viceversa.

Donne ch’avete la troviamo “già” iscritta nei Memoriali Bolognesi dal 1292 (secondo semestre); mentre Donna me prega è registrata a Bologna dal notaro Ysfacciatus nel 1300 (V. più sotto). Ergo, i giuochi tra le due canzoni cominciarono e finirono fra ante 1292 e ante 1300: in sette anni circiter; al massimo in otto anni spaccati, se volessimo ancorarci solo e soltanto alle due date di cui siamo assolutamente sicuri e certi al cento per cento. Stabilita la “prossimità” cronologica tra le due liriche, veniamo ora in medias res e, in primis,  ai propugnatori della presunta posteriorità di Donna me prega rispetto a Donne ch’avete.

Nicolò Pasero, dopo ampia e certosina comparazione del testo cavalcantiano essenzialmente “con” La Vita Nuova, propende con Giuliano Tanturli, e la di lui congettura, secondo cui Donna me prega sembra  avere tutti i caratteri della “confutazione” (22).

Giuliano Tanturli infatti sottolinea l’“insistente appuntarsi del ragionamento non tanto a negare, quanto a confutare un concetto d’amore” (23); ovvero, ciò che l’amore è e a quale ambito pertiene […] Il suo ragionamento consiste proprio nel dimostrare a che cosa l’amore […] e da che cosa è prodotto […] si tratta insomma di una confutazione più che di una dimostrazione” (24).

L’analisi accurata di Donna me prega comporterebbe, insomma, per Tanturli, che essa canzone fosse stata scritta “dopo”, come confutazione, appunto, delle tesi di Dante della Vita Nuova :

“Ci si può nondimeno continuare a chiedere quale delle due ipotesi concorrenti, allo stato delle nostre conoscenze, risulti comunque la più plausibile, o la più economica, scrive Nicolò Pasero. Penso che per abbozzare una risposta vada ribadita la tesi di Giuliano Tanturli sul carattere di fondo della canzone cavalcantiana, ‘confutazione’ più che ‘dimostrazione’ […] Nel caso dei nostri due testi, lo statuto del testo polemizzante compete a Donna me prega piuttosto che alla Vita Nuova”; per cui, osserva ancora Pasero, “sembra difficile considerare il libello dantesco […] come opera espressamente dedicata alla contestazione delle tesi cavalcantiane” (25).

Prima però di arrivare a una qualsivoglia conclusione, un supplemento d’indagine non parrebbe inopportuno. Potrebbe infatti anche essersi dato il caso che Cavalcanti si fosse limitato, come asserì Selene Sarteschi con ottime argomentazioni, ad approfondire da un punto di vista “scientifico” il tema di cosa fosse Amore, essendo possibile

“ che Donna me prega, composta nei modi di un vero trattato, costituisca anche la messa a punto più tecnica di una ideologia personale: soprattutto se si riflette che lo stesso Cavalcanti aveva alternato ‘pensamenti’ diversi intorno all’amore, che possono stimarsi ridefiniti, nella canzone, alla luce di una programmatica scientificità” [corsivo mio] (26).

L’osservazione  della Sarteschi pare degna di particolare considerazione, e ad essa si può aggiungere, come vedremo, qualcosa d’altro. Comunque, ogni “manovra” tesa a fare di Donna me prega  il  testo polemizzante contro la Vita Nova è cassata dalla Sarteschi, perché  sarebbe, diceva la studiosa,  “priva per altro , come non può non essere, di qualsiasi supporto documentario” [corsivi miei].

Il che è vero, ma fino a un certo punto.

A pro di Donna me prega come testo polemizzante  c’è, per quel che può valere, ma c’è,  la tradizione delle maniculae di alcuni manoscritti cavalcantiani, nei quali si commentava Donna me prega come fosse stata redatta “contra Dantem”:

“In particolare, osserva Sara Ferilli,  si noti che in alcuni casi il fatto che questi versi presentino annotazioni marginali o maniculae  testimonia non solo che i lettori ne riconobbero la portata contraddittoria, ma anche che gli stessi intesero dare risalto più alle affermazioni che denigravano la mancata risposta dell’Alighieri che alle esternazioni contro i versi di Cavalcanti. Fornisco, di séguito, qualche esempio:

  1. a) Brescia, Biblioteca Civica Queriniana, C VI 21. Don(n)a me prega chio debia dire. A margine: Contra Dante(m];
  2. b) Firenze, Biblioteca Medicea-Laurenziana, Ashb. 370.

Do(n)na mi priega chio debia dire.  Su marg. sup., stessa mano: Nota ibi contra Dante[m]” [corsivo mio] (27).

Osservando poi i codici della Vita Nuova sia pure da un punto di vista puramente estrinseco, si considera che Donna me prega viene posta sempre dopo la Vita Nuova.  Così, per esempio, nel codice Magliabechiano VI, 143 (S)  della Biblioteca Nazionale di Firenze, troviamo  la Vita Nuova alle cc. 1-15. “Alla Vita Nova, annotava il Barbi, seguono le cc. 16-125”; e a c. 16 compare Donna mi priegha” (28). Così nel codice della Braidense AG, XI, 5, del  XVI secolo, al solito, “dopo” la Vita Nuova  compare “la canzone di Guido di messer Cavalcante (cc. 55b-64°), Donna mi prega”  (29). Nel Trivulziano 1050, del XVI secolo, “dopo” la Vita Nova, e dopo i sonetti di Cino, compaiono le “canzoni di Guido di messer Cavalcanti”, tra le quali, a c. 219 Donna mi priegha” (30); e così nel codice della Biblioteca civica di Rovereto ( c. 50b: Donna mi prega); lo stesso nel codice F 5 859 della Biblioteca Nazionale di Firenze, “proveniente dal convento di Santa Maria Novella”.

E si potrebbe continuare ancora.

Codesti esempi, sia pur parchi,  permetterebbero comunque di stabilire, su basi documentarie inoppugnabili, due cose: primo, che Donna me prega fu pensata, secondo alcuni antichi commentatori, come  testo polemizzante “contra Dantem”. Poiché, inoltre,  in un numero importante di codici Donna me prega è sempre situata “dopo” la Vita Nuova, la cosa potrebbe costituire indizio non spregevole in verità d’una implicita “posteriorità” della canzone rispetto alla Vita Nuova.

Ma c’è anche un altro terreno che a mio avviso andrebbe adeguatamente dissodato:  Cavalcanti, cioè,  se la prese per davvero  “con” l’intera Vita Nuova, oppure  “solo” con Donne ch’avete?

 

Per una  cronologia di “Donne ch’avete”

 

Prima di spenderci sugli interrogativi suesposti, sarà opportuna, in via preliminare,  una verifica della datazione di Donne ch’avete. E allora partiamo dall’unico dato certo da cui ci è dato partire, ossia da quello, diceva Gianfranco Folena, offertoci dal “notaio Piero di Alegranza, del 1292, 2 sem., contenente adespoto un frammento della canzone Donne ch’avete” (31). L’adespoto in questione ci dice che, all’altezza del 1292, secondo semestre, Donne ch’avete “girava” già all’ estero. La testimonianza  dei Memoriali bolognesi è inoppugnabile, e  Giovanni Livi, sulla soglia degli anni ’20 del secolo scorso,  scriveva:

“Pietro di Allegranza, notaro e dottor di leggi […] trovandosi ai Memoriali nel secondo semestre del 1292, inserì in una delle sue pagine buona parte della canzone Donne ch’avete intelletto d’amore” (32). Per il momento, osserveremo che, grazie a Petrus de Alegrançe, ci si può muovere intorno alla composizione di Donne ch’avete partendo da un dato assolutamente ancorante,  inossidabile,  il  1292, primo semestre molto “avanzato” di detto anno, essendo  “Donne ch’aviti intellecto d’amore, trascritta da Petrus Alegrançe, collega e amico di Enrichetto, verosimilmente tra il 28 settembre e il 2 ottobre 1292 sulla ventunesima carta del suo memoriale”  (33).

Ma la sia pur preziosa datazione offertaci  da Pietro Alegranza non ci dice però “quando” la suddetta canzone fosse stata composta: ossia ci manca (molto) il terminus a quo.

Sul fronte avverso, quello di Cavalcanti, si dice  che sarebbe letteralmente impossibile stabilire  la data di composizione di Donna me prega, perché mancherebbe la prova “schiacciante”. Lo credo anch’io, purtroppo;  ma in assenza di prove schiaccianti possono talora valere, e molto, gli indizi, purché solidi, che hanno anch’essi il valore di prova, in assenza di fonti documentarie. Osserveremo, intanto, che, primo fra tutti, Flaminio Pellegrini scovò, nascosto tra i “libri dell’Archivio Notarile di Bologna” vergati tra il 1300 e il 1301 dall’ “ysfacciatum Notarium filium Antonij de montecatino”, il congedo della canzone cavalcantiana  (Tu puoi seguramente gir, canzone, del notaio Antonio Isfacciato Antonii de Montecatino)” (34). Rese le grazie le più convinte e sincere alla solerzia e dell’Ysfacciatus e del Pellegrini, si osserva che le uniche date certe che ci attestano quindi, al di là d’ogni ragionevole dubbio, i termini ad quem delle due citate canzoni, che si vorrebbero antagoniste (il che potrebbe anche non essere), sono due: il 1292 (per Donne ch’avete) e il 1300-1301 (per Donna me prega).

Venendo ora nello specifico al terminus a quo di Donne ch’avete, si potrebbe scalare, dal 1292, ancora “qualche tempo”: uno o due anni? Scendendo di almeno due anni, ci troveremmo in pieno 1290, l’anno cioè della morte di Beatrice. Gli indizi interni a Donne ch’avete (malattia di Beatrice) porterebbero (come hanno portato) a congetturare che Donne ch’avete “potrebbe” essere stata vergata “qualche tempo prima” della morte della donna gentile, vale a dire nel 1289, secondo la data decretata dal Barbi, e da innumere stuolo di critici ante e post Barbi:

Donne che avete, scritta nel 1289”:

“Qual maraviglia che per la morte di siffatta donna il poeta presenti tutta commossa la natura? Non immagina già nella canzone Donne ch’avete, scritta nel 1289, commuoversi tutto il cielo per il desiderio di aver Beatrice e la pietà divina prender le parti della povera umanità?” (35).  Potremmo veder “confermata”, con un’aderenza pressoché totale alla realtà,  la data effettiva di composizione di Donne ch’Avete (1289-1292 ) anche da dati esterni:

“Nel 1242 Buonagiunta, scrive Maria Simonelli,  era già operante come notaio: dobbiamo dunque pensarlo nato verso il 1210-1215, certamente prima del 1220. La notizia di Donne ch’avete deve essergli giunta all’estremo della vita, o più probabilmente non aveva fatto in tempo a giungergli neppure come notizia. Non sappiamo cioè se la vita di Buonagiunta si sia prolungata fino a quel 1290-1292, presumibile data della canzone-manifesto del Dolce Stil Nuovo dantesco” [corsivi miei] (36).

A meno che Dante non avesse preso l’Orbicciani come molto generico  “esemplare” dell’invisa “vecchia scuola”,   (cosa possibile ma molto improbabile), diciamocelo pure: non si capirebbe granché bene il motivo per cui  il Divin Poeta fosse andato a intrigare un rimatore al quale lo stilnovo non sarebbe arrivato “neppure come notizia”. Se si guarda bene a fondo, l’Orbicciani aveva “cantato” di cose che erano sicuramente (molto) spiaciute a Dante. Non aveva costui forse biasimato il pater e nume tutelare di Dante, Guido  Guinizzelli,  per aver  “mutata la manera”, “traendo canzon  per forza di scrittura?”. Benché nato intorno al 1215, tra il 1289 e il  ’90,  l’Orbicciani avrebbe avuto  74-75 anni:  un’età non improbabile per aver avuto almeno “notizia” del Nuovo Stil, ma al tempo stesso limite “quasi estremo” della di lui vita, che potremmo immaginare prolungarsi al massimo sino al 1292, primo semestre.  Poiché è arduo ipotizzare che Donne ch’avete fosse potuta arrivare ai Memoriali bolognesi “in contemporanea” con la sua stesura (scritta e subito subito “registrata” nei Memoriali), almeno due-tre anni di decantazione sono  ragionevolmente probabili. Pertanto, Bonagiunta Orbicciani da Lucha poté aver “notizia” della canzone dantesca, rapidissima nella sua divolgazione, a cavallo “tra” il 1289 e il 1290: “in” questo periodo probabilmente (e purtroppo per lui) “defungit” Bonagiunta Orbicciani;  ed è quindi “dentro” questo brevissimo lasso di tempo che è da stabilirsi ragionevolmente il terminus a quo di Donne ch’avete, della quale Bonagiunta ebbe, sicuramente,  “appena il tempo” d’averne “notizia”.

 

Fu Donne ch’avete

“posteriore” a

Donna me prega?

Storia di un “precedente metrico”

 

Nella “battaglia” scatenatasi tra quanti vollero vedere nella Vita Nova il testo “polemizzante” contro Donna me prega, Donne ch’avete  ebbe una posizione  “strategica” di tutto rilievo. Una difesa della posteriorità di Donne ch’avete rispetto a Donna me prega fu proposta da Mario Marti, scatenando però più “se” e “ma” che consensi. Nel passo “ Nam quedam stantia est que solis endecasillabis gaudet esse contexta , ut illa Guidonis de Florentia: Donna me prega”, Marti avvertiva un evidentissimo “ faccia a faccia addirittura speculare, nel quale Dante segna,  con tutta evidenza , una successione cronologica” :

Ut illa, va ben rilevato, continuava lo studioso, è riferimento a causa nota e ben lontana: vi si contrappone il dicimus: ‘et etiam nos dicimus’ (in altri casi sintatticamente analoghi Dante usa diximus”  (37). La conclusione di Mario Marti è quindi secca e non lascia spazio a confutazioni:

“E’ Dante che si distacca da Guido, con Donne ch’avete” . Su una linea di sostanziale “confutazione” di Donna me prega come testo “polemizzante”, a Mario Marti s’era affiancato  Pier Vincenzo Mengaldo, che aveva individuato in Donna me prega il modello di riferimento dell’ancor  giovane Dante:

“L’accoppiamento alla magna canzone cavalcantiana suona implicito riconoscimento del valore di  modello di quest’ultima per Donne ch’avete (stanza di quattordici versi, tutti endecasillabi)” (38). Domenico De Robertis, in un primissimo momento, dette per scontato che Donne ch’avete fosse stata scritta “dopo” Donna me prega;  e l’argomento prìncipe della sua argomentazione, ancora oggi e nonostante i ripensamenti dello stesso De Robertis, possiede una rimarchevole solidità; soffermandosi infatti sull’ “esordio” di Donne ch’avete,  osservò:

“ Ma di tale ampiezza e autorità d’esordio [scil. di Donne ch’avete] […] s’aveva già un esempio illustre nella canzone teorica e dimostrativa di Cavalcanti (che è, oltre tutto, il precedente metrico, per la strofa di 14 endecasillabi, di Donne ch’avete)” (39). Accanto a ciò, De Robertis annotava altri riscontri, come, per esempio, “anche la dichiarazione del proposito (I eo voglio dire;  e 8-9 ‘senza natural dimostramento, Non ho talento di voler provare’. Cfr. gli occhi dolenti ‘Non voi’ parlar altrui Se non a cor gentil). Nel congedo, concludeva De Robertis, il pubblico identificato ‘con le persone c’hanno intendimento’” (“Si ricordi, commentava ancora De Robertis, che quell’incipit […] richiama il congedo di Guido”).

Enrico Malato, contra la proposta di Mario Marti  notò, invece, un’indubbia differenza di “tono” fra le due liriche, sostenendo che “tra Donne ch’avete e Donna me prega non  c’è  alcuna affinità , a parte la struttura della stanza di quattordici versi endecasillabi”; ma, continua lo studioso,  sarebbe comunque  “assai arduo ricavare da questo dato una prova risolutiva riguardo al supposto ruolo di modello del testo di Guido per la canzone di Dante” (40).

Enrico Malato non aveva poi  tutti i torti, perché le cose, a ben vedere, non appaiono poi così limpide: non è detto che Dante, tra l’89 e il 1292 (primo semestre), cioè nel momento in cui scrisse Donne ch’avete, avesse avuto “per forza” solo e soltanto Donna me prega a cui guardare come “modello”. Dante potrebbe, al contrario, essersi rifatto, alla “seconda canzone” del suo primo amico, cioè Io non pensava che lo cor giammai, che mostra nel congedo la “stessa” strofa di 14 versi endecasillabi, con l’unica variante che gli ultimi due versi non sono a rima baciata (41).  Nel codice Chigiano L. VIII. 305, Io non pensava che lo cor giammai (ff. 3-4 verso) viene immediatamente prima ( e non solo per l’occhio) di Donna me prega (f. 4 recto). Ciò non significa che di qui si possa stabilire l’anteriorità della prima rispetto alla seconda; ma lo stesso De Robertis, dopo aver detto che “questa della strofa di 14 versi con distico finale a rima baciata è la sigla della Vita Nuova” [schema: ABBC . ABBC / CDD. CEE], aggiunge tuttavia che “ anche l’ altra canzone di Cavalcanti, da cui deriva la strofa congedo, ha la strofa di 14 versi, con fronte di 2 piedi tetrametri, come ‘Donne ch’avete’” (42). Di qui, dunque, la legittima inferenza che non è per nulla scontato che Dante avesse preso a modello “proprio” Donna me prega, perché potrebbe essersi rifatto, per la strofa di 14 versi, alla seconda canzone di Cavalcanti, per cui l’ipotesi  di Donne ch’avete come testo polemizzante  contra Donna me prega mostra un po’ la corda, e il riscontro stilistico prìncipe individuato da De Robertis e da Mengaldo, per quanto pertinente esso possa sembrare,  non pare essere risolutivo a stabilire con assoluta certezza la derivazione di Donne ch’avete “da” Donna me prega.

 

Un fantasmagorico etiam di Dante

 

Per tentare una soluzione che abbia un minimo di corrispondenza con la realtà dei fatti, non resta che partire dall’opera dantesca in cui si fa espressamente menzione di Donna me prega, cioè dal De Vulgari Eloquentia. Partirei intanto da alcune interessanti osservazioni di Mengaldo, per il quale il De Vulgari Eloquentia ha un “impianto enciclopedico”, per la ricerca di “modelli autorevoli” ;  per il costante richiamo”, dice Mengaldo, “ai modelli volgari” .  Il De Vulgari El., risalente al 1304-1305,  parrebbe quindi essere una ricognizione storica sui “modelli” di riferimento dei versi italiani, una ricerca delle “auctoritates”, “procedendo a ritroso dalle derivazioni più recenti, gli archetipi antichi e solenni del sapere” . “L’attualità del trattato, rileva  Mengaldo, risiede soprattutto nei suoi aspetti di storiografia”.  Quanto a Cavalcanti, osserva ancora lo studioso , pur evidenziandosi “frizioni” tra lui e Dante, il primo  non manca di “essere lodato come maestro di volgare illustre”  (43).

Nel 1304-1305 Dante, citando dunque Donna me prega, e soffermandosi sulla metrica, scriveva:

Et etiam nos dicimus:

Donne ch’avete.

Ora, Mengaldo (come altri), traduce l’ etiam come “pure”: “ E pure noi diciamo”  (44).  Giorgio Inglese, dal canto suo, aveva  annesso un’importanza “non irrilevante” all’ etiam, pur non dandogli (non senza una punta d’ironia) un valore che vada oltre il significato del semplice “anche”:

“Non vorrei spendere troppe parole, per dimostrare che, in Dante, dice Inglese, ‘anche’ significa … ‘anche’”  (45).

Malato, dal canto suo,  sottolinea di “non vedere alcun motivo plausibile ( e tale proprio non sembra anche l’ etiam), per dare valore probatorio, quale che sia,  all’ordine della citazione dantesca” (46).  Per Inglese, comunque,  la posteriorità di Donne ch’avete rispetto a Donna me prega è fuori discussione. Dopo aver detto, pur tuttavia,  che dalla sequenza Guido>Dante “non si ricava alcuna indicazione vincolante”, aggiunge:

“ Bisogna perciò affidarsi al significato linguistico diretto della frase, e direi, solo per partito preso si può negare che XII, 3 ‘comunichi’ al lettore quandam anterioritatem della canzone cavalcantiana sulla dantesca.  Del resto, continua Inglese, la formula usata in relazione a Guido (et nos dicimus, et in illa quam diximus) è identica a quella usata per Arnaut (et nos dicimus), ciò che inevitabilmente induce il lettore non prevenuto ad assimilare le due situazioni ( e non a caso , ma per lo spirito anticavalcantiano che percorre il trattato, Dante aggiunge per Arnaut secuti sumus , per Guido solo il debole , ma non irrilevante ‘etiam’” (47).

Se si parte, però, dal concetto che  “anche” significa soltanto  “anche” anche per  Dante, “ma” il Dante latino; o “pure”,  come traduce Mengaldo, si resta in mezzo al guado,  risultando indimostrabile  quale delle due liriche fosse stata concepita  prima dell’altra, o a quale delle due dare la palma di eventuale “testo polemizzante”; insomma, secondo Inglese, “indizi interni, che permettano di fissare, quale, fra i due testi, presupponga l’altro, non si danno” (48).

Tornando sul fatidico e  “non irrilevante” etiam del  Dante “latino”,   si potrebbe invece rilevare che,  se anziché con  “anche” o “pure”,  etiam lo si traduce secondo “la” connotazione che  gli compete,  il passo del  De Vulgari Eloquentia   assume un significato  diverso, suggerendo a mio avviso una sia pur “lieve posteriorità” di Donne ch’avete rispetto a Donna me prega.

Diceva Contini che  “la lingua italiana non è una bella lingua, ma è una lingua fantasiosa. E’ una  lingua che non si presta a una trascrizione razionale”  (49). Il latino, invece,  è molto più “razionale” e analitico dell’italiano; e  in  latino esiste, per esempio, una differenza sostanziale tra etiam  e quoque:

Etiam, ci spiegava in tempi a noi altissimi Enrico Cocchia, ha valore intensivo e amplificativo e può stare prima o dopo la parola a cui si riferisce;  quoque invece denota parità fra quel che precede e quel che segue, e si pone sempre dopo il termine al quale logicamente appartiene” (50). Il Cocchia poi aggiungeva che “etiam infatti deriva da et e iam”,  e propriamente significa  ancora, già, inoltre (51).  Il valore  connotativo  di etiam è dunque  “inoltre” o “ancora”.

Quando il vetusto italico “eziandio” (che ha le sue scaturigini in et e iam) cadde  in disuso, ci erudisce Niccolò Tommaseo , esso fu soppiantato da  “ancora”; ma, chiosava, “ancora riguarda anco il tempo”, e “ancora usasi in senso d’ inoltre: al principio del periodo accoppia le cose dette con quelle che seguono” (52). Allora, nel caso specifico in esame, il Dante dell’ et etiam (=ancora, inoltre)  “accoppiò” la cosa “detta” in precedenza (Donna me prega) con quella “cosa” che seguiva, cioè Donne ch’avete: possedendo “ancora” valore “temporale”, elemento che invece era assente in “eziandio”.

In conclusione, abbiamo dunque il dato che “inoltre” e “ancora” sono sinonimi e possiedono valore temporale. Così, mentre etiam ha il valore di “inoltre”,  “in più”, “ancora”, “già”,  e “persino”, e la sua variante “perfino”,  quoque esprime  un  “concetto di parità”, e  si può tradurre con “pure”, che purtuttavia è “abbastanza” distante da “anche”, appartenendo “pure” solo all’area linguistica centro-meridionale dell’Italia, mentre “anche” è attestato sia per l’area toscana sia per quella settentrionale (53).

Dante, dunque,  non scrisse “nos quoque dicimus”, volendo così esprimere un concetto di neutra parità, anche temporale fra la sua canzone e quella dell’amicus,  bensì « et etiam nos dicimus » ; cioè:

“ E inoltre (ancora) , noi diciamo”. Gian Giorgio Trissino, latinista nonché grecista insigne, non tradusse l’etiam del Dante latino con un semplice e neutro “anche” (anco), bensì con “ancora”, e cioè “inoltre”: “Et etiam nos dicimus”, “Et ancora noi dicemo”  (54). E’ a questo punto   manifesto che la traduzione in italiano di et etiam come “pure”,  traduce non “etiam”, ma  “quoque” (che esprime un concetto di parità).

Etiam ha maggior forza di quoque,  talvolta è accrescitivo e vale perfino”, chiosava  Ferdinand Schultz (55). Quindi la frase et etiam nos dicimus varrebbe: “perfino noi diciamo”; dove perfino inevitabilmente si connette a un concetto temporale che rinvia a un “dopo” la cosa detta in precedenza.

L’inglese è analitico al pari del latino, e rende bene il  concetto. John McClintock, nel suo First Book in Latin della metà dell’Ottocento ci presenta codesti interessanti esempi relativi all’uso di etiam

1 Again and again: Etiam atquě ětiăm

2 And again: Et ětiam

3 Not only but also: Non solum sěd ětiam (56).

L’esempio n. 2  [et etiam=again] è più che bastate alla bisogna, comportando la traduzione: “e noi di nuovo (and again), “in più”, “ancora”)   diciamo”.  Se poi Dante avesse putacaso inteso et etiam come equivalente di atque etiam, avrebbe commesso  peccatum di stile, e perciò sarebbe stato fieramente bacchettato sulle dita dal professor Orazio Tursellino, il quale sottolineava severo che

innanzi a etiam non suol mai porsi la congiunzione et. Epperò invece di et etiam dicesi più rettamente Atque etiam” (57). Infatti “etiam, diceva il Tursellino, per lo più ha forza accrescitiva”, col valore di “anzi”.   Se quindi l’ Et etiam dantesco fosse valso come atque etiam, esso significherebbe  “anzi”, come ci attesta l’autorevolezza indiscussa dell’Avvocato Cicerone, tradotto dal professor Mario Fuochi: “Atque etiam: ‘anzi’” (58). La traduzione vulgata di et etiam nos dicimus (dopo la citazione di Donna me prega) con  “e pure noi diciamo”, non rende giustizia né al reale significato della particella né a quello della frase. Ma se vogliamo aggiungere all’etiam le sfumature  di cui sopra (“ancora”, “inoltre”, “anzi”), la cosa  inevitabilmente va a coinvolgere l’intero  significato della frase;  se poi l’etiam lo si interpretasse alla stregua di atque etiam, si otterrebbe un “anzi”,  che   darebbe  “anche” ( cioè  inoltre)  una sfumatura polemica all’espressione dantesca.

Ma  “anzi” (=invece, o meglio, piuttosto diciamo) (o abbiamo detto-dicemmo):

Donne ch’avete intelletto d’amore.

Del resto, come si sa, Dante, in Donne ch’avete,  trattò la matera d’Amor in maniera assolutamente opposta rispetto ai “logici” nonché terrifici assiomi enunciati da Cavalcanti con Donna me prega. Da quanto s’è andati dicendo, e dando all’etiam il valore connotativo di “inoltre”,  pare evidente un’indubbia “posteriorità” di Donne ch’avete rispetto a Donna me prega. Ci saremmo poi aspettati comunque  un diximus (perfetto) e non un presente indicativo (dicimus). Ma sulla variante dicimus-diximus (presente/perfetto) già Mario Marti aveva evidenziato che “in altri casi sintatticamente analoghi Dante usa ‘diximus’”(59).

 

Note

 

1)      Guido Cavalcanti, Rime, a cura di Domenico De Robertis, Torino, Einaidi, 1986, p. 94.

2)      “ ‘Esposizioni sopra Dante’ di Eugenio Montale”, in Metodi e fantasmi, Milano, Feltrinelli, 1977, p. 60.

3)      Dino Cervigni, “Time and Space in the ‘Vita Nuova’”, in L’Alighieri, luglio-dicembre 1981, n. 2,   p. 6 nota 2.

4)      Ivi, p. 5. Insieme con il “vacuum” si sono innestati poi altri problemi, come quelli indicati da  Teodolinda Barolini, la quale ha svolto argomenti molto pertinenti a proposito del “finale” della Vita Nuova, che aprì a stura a infinite discussioni sulla “presunta” doppia redazione del libello, in cui furono coinvolti, volenti o nolenti, intere schiere di studiosi, dal Barbi (il quale, aderendo strettamente agli “scartafacci”, non trovò nulla che facesse pensare a una doppia redazione) al Nardi, da Pietrobono alla Corti:  “La tesi di Luigi Pietrobono sul rifacimento o riscrittura della fine della Vita Nuova, avanzata per la prima volta nel 1913 , è un esempio eclatante di una questione discussa come materia filologica ma che in realtà non possiede alcuna sostanza filologica. Pietrobono inventò una versione inesistente e precedente della Vita Nuova, che si concluse con il trionfo della donna gentile. In altre parole, inventò un finale più soddisfacentemente congruo, in termini narrativi, con la sezione della donna gentile del libello. Secondo la tesi di Pietrobono, questo finale originale con la trionfante donna gentile fu in seguito riscritto da Dante come il finale che ora possediamo, in cui il poeta ritorna al suo amore per la morta Beatrice” [“Luigi Pietrobono’s thesis of the rifacimento or rewriting of the end of the Vita Nuova , first advanced in , is a striking example of an issue discussed as though philological which actually possesses no philological substance. Pietrobono invented a non-existent, prior version of the Vita Nuova , one that ended with the triumph of the donna gentile. In other words, he invented an ending that is more satisfyingly congruous, in narrative terms, with the donna gentile section of the libello. According to Pietrobono’s thesis, this original ending with the triumphant donna gentile was later rewritten by Dante as the ending we now possess, in which the poet returns to his love for the dead Beatrice] (Teodolinda Barolini, “The Case of the Lost Original Ending of Dante’s Vita Nuova. More Notes Toward a Critical Philology”, in Medioevo letterario d’Italia, 2014, n. 11, p. 38)].

5)      Valeria Bertolucci Pizzorusso, “La vita nuova nella cronologia dantesca. Nuove considerazioni”, in Culture, livelli di cultura e ambienti nel Medioevo occidentale. In Atti del IX Convegno della Società Italiana di Filologia Romanza, Bologna, 5-8 ottobre 2009, a cura di Francesco Benozzo, Giuseppina Brunetti, Patrizia Caraffi, Andrea Fassò, Luciano Formisani, Gabriele Giannini, Mari Mancini, Aracne Editrice, p. XXXII e p. 6.

6)      La Vita Nuova, per cura di Michele Barbi, Firenze, Società Dantesca Italiana Editrice, 1907,  p. 98, cap. LX.

7)      Edoardo Sanguineti, “Per una lettura della Vita Nuova”, in Dante reazionario, Roma, Editori Riuniti, 1992, p. 10.

8)      Ivi, p. 11.

9)      Valeria Bertolucci Pizzorusso, La vita nuova nella cronologia dantesca …, cit., p. 3.

10)    Giorgio Padoan, Introduzione a Dante, Firenze, Sansoni, 1975, p. 18.

11)    Luigi Chiappelli, Vita e opere giuridiche di Cino da Pistoia, Pistoia, Fratelli Bracali, 1881, p. 23 e nota 2.

12)    Guido Zaccagnini, “Un sonetto di Cino da Pistoia attribuito a Terino da Castelfiorentino”, Estratto dalla Miscell. stor. della Valdelsa, anno XXI, fasc. 1, della serie n. 59, Castelfiorentino Tip. Giovannelli e Carpitelli, 1913, pp. 1-13:  p. 12.

13)    Valeria Bertolucci Pizzorusso, La vita nuova nella cronologia dantesca …, cit., p. 4.

14)    Cfr. Charmaine Lee, “La solitudine del cuore: caratteri delle lirica cortese in Francia”, in  AA.VV., Capitoli per una storia del cuore. Saggi sulla lirica romanza, Milano, Sellerio, 1988, p. 63.

15)    Ernesto Livorni, “Il proemio de ‘La Vita Nuova’: impostazione del discorso dantesco”, in L’Alighieri, gennaio-giugno 1988, n. 1, pp. 9-10.

16)    Ivi, p. 8.

17)    Cfr. Latin Phrase-book, by Carl Meissner, London, Macmillan and Co, and New York, 1895,  p. 79.

18)    Edoardo Sanguineti, Per una lettura della Vita Nuova, cit., p. 11.

19)    Luigi Gentile,  “Di un documento per l’anno della nascita di Dante”, in Bullettino della Società Dantesca Italiana, settembre 1891, n. 5-6,  p. 40.

20)    Ivi, pp. 44-45.

21)    Cfr. Giacomo Devoto, Avviamento alla etimologia italiana, Bologna, Le Monnier, 1967, ad vocem.

22)    Nicolò Pasero, “Dante in Cavalcanti. Ancora sui rapporti fra Vita Nuova e Donna me prega”, in  Medioevo Romanzo, 1998, n. XXII, pp. 388-414, particolarmente le pp. 411-413.

23)    Giuliano Tanturli, “Guido Cavalcanti contro Dante”, in Le tradizioni del testo. Studi di letteratura italiana offerti a Domenico De Robertis,  a cura di Franco Gavazzeni e Guglielmo Gorni,  Milano,  Ricciardi, 1993, pp. 3-13,   p. 8.

24)    Ivi, p. 6.

25)    Nicolò Pasero, Dante in Cavalcanti …, cit., p. 413.

26)    Selene Sarteschi, “Donna me prega-Vita Nuova: la direzione di una polemica”, in Rassegna europea di letteratura italiana, 2000,  p. 9.

27)    Sara Ferrilli, “ ‘Donna me prega perch’io debbia dire?’ Un incipit cavalcantiano nell’Acerba”, in Stilnovo e dintorni, a cura di Marco Grimaldi e Federico Ruggiero, Roma, Aracne Editrice, 2017, pp. 305-306.

28)         La Vita Nuova, per cura di Michele Barbi, Firenze, 1907,   p. XXX.

29)    Ivi, p. XLI.

30)    Ivi, p. XLVI.

31)    Gianfranco Folena, “La tradizione delle opere di Dante Alighieri”, in Atti del Congresso Internazionale di Studi Danteschi, Firenze, 1965, Vol. I,  p. 10.

32)    Giovanni Livi, Dante. Suoi primi cultori. Sua gente in Bologna, Bologna Licinio Cappelli, Editore, 1918,  p. 7. “53. (Donne ch’aviti intellecto d’amore) Mem. 82 (1292, semestre II), c. 129 v. Notaio: Petrus alegrançe. Sul marg. Sx: chançone [Cfr. Sandro Orlando, Rime due e trecentesche tratte dall’Archivio di Stato di Bologna, Commissione per i testi di lingua, 2005, p. LXXVIII). Cfr. anche Adriana Caboni , Antiche rime italiane tratte dai Memoriali bolognesi, Società Tipografica Modenese, 1941, p. 70: “ XXXVIII (1293) Mem. 82 c. XXIV  (II° fasc. del Mem.) ‘Liber Memorialium […] per me Petrum Alegrançe notarium’. Card. N. 4 ‘Chançone’ Donne ch’aviti intellecto d’amore. Per la datazione al 1293,  cfr. La Vita Nuova, per cura di Michele Barbi, cit.,   p. 44 nota 23: “Preferisco in divino, perché è dato tanto da codici di α quanto di β, non che dal Memoriale del 1293” .

33)    Armando Antonelli, “Rime estravaganti di Dante provenienti dall’Archivio di Stato di Bologna (con un approfondimento di ricerca sul sonetto della Garisenda vergato da Enrichetto delle Querce)”, in Le Rime di Dante, a cura di Claudio Berra e Paolo Borsa, Milano, Cisalpino, 2010, p. 87.

34)    Flaminio Pellegrini, “Rime inedite dei secoli XIII° e XIV° Tratte dai libri dell’Archivio Notarile di Bologna”, in Il Propugnatore, Bologna,  1890, Vol. III-Parte I, p. 146 nota 1: “Ha il numero 70 del vecchio registro e comincia: ‘ In nomine Amen Liber iste continet in se Accusationes inquisitiones denumptiationes Notificationes protestationes et alias scripturas in occurrentes et factus tempore capitaneatus Nobilis viri domini Soffredi de Vergiolensibus de pistorio honorabilis Capitanei comunis et populi ciuitatis bon. sub examine sapientis viri domini Guidonis montealtino Judicis et scriptus est per me ysfucciatum Notarium filium Antonij de montecatino scribam dicti domini Capitanei annis Natiuitatis dominj Millesimo trecentesimo Indictione terciadecima a sex diebus intrantis mensis Septembris usque ad Kalendas Aprelis proxime venturas Infrascriptis mensibus et diebus et partim in millesimo trecentesimo primo Indictione quartadecima’. Va dal die xiiij septembris al die vij marcii dell’anno Appresso”.

35)    Michele Barbi, “La data della Vita Nuova”, in Problemi di critica dantesca, 1965, Vol. I, p. 104. Cfr. inoltre:  Ernesto Lamma, Di un frammento di codice del secolo XV, Città di Castello, 1903, p. 67 (Donne ch’avete, 1289); Vincent Moleta, “Al cor gentil rempaira sempre amore, in V. Moleta,  Guinizzelli in Dante, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1980, p. 39 nota 50, secondo il quale Donne ch’avete fu composta intorno al 1289-1290 in connessione con la morte di Beatrice] “La probabile datazione di Donne ch’avete essendo verso il 1289”, conferma Margherita de Bonfils Templer, (“Quando amor mi spira noto (Purg. XXIV)”, in Dante Studies, 1980, n. 98, p. 95 nota 3)”-

36)    Maria Simonelli, “Buonagiunta  Orbicciani e la problematica del Dolce Stil Novo”, in Dante Studies, 1968, p. 69 nota 86.

37)    Mario Marti, “Da Donna me prega a Donne ch’avete: non viceversa’”, in Da Dante a Croce: proposte, consensi, dissensi, Galatina,  Congedo, 2005,  pp. 7-15: p. 15. Piuttosto problematico, comunque, dare a “illa” un valore di “lontananza” come avrebbe voluto il Marti, poiché “illum” assume di norma il valore di un mero “correlativo”. Sulla questione, cfr. quanto si dice a proposito di “illum” in Cicerone, Somnium Scipionis. Introduz. e Comm. di A. Roncoroni, in Testi greci e latini con commento filologico, Firenze, Le Monnier, 1961, Vol. II,   p. 90.

38)    Pier Vincenzo Mengaldo, “De Vulgari eloquentia”, in Dante Alighieri, Opere Minori, De Vulgari Eloquentia, Monarchia a cura di P. V. Mengaldo,  B. Nardi, A. Furgoni, G. Brugnoli, E. Cecchini, F. Mazzoni, in La Letteratura Italiana. Storia e Testi, Vol. 5, Tomo II,   Milano-Napoli, Ricciardi, MCMLXXIX,  p. 219.

39)    Domenico De Robertis, “Nascita della coscienza letteraria italiana”, in L’Approdo Letterario. Rivista trimestrale di Lettere e Arti, ERI, luglio-settembre 1965, n. 31, p. 13 e nota.

40)    Enrico Malato, “Ancora su Dante e Guido Cavalcanti: il dissidio per la Vita Nuova”, in Feconde venner le carte. Studi in onore di Ottavio Besomi, a cura di Tatiana Crivelli, Bellinzona, Edizioni Casagrande, 1997, p. 77.

41)    La cosiddetta “terza canzone” [Poi che di doglia cor conven ch’ i’ porti], non fa testo perché è di 15 versi. Cfr. G. Tanturli, “La terza canzone di Cavalcanti: Poi che di doglia cor conven ch’i’ porti”, in  Studi di Filologia Italiana,  1984,  XLII, p. 71. Per Tanturli, non si tratterebbe neppure di una canzone mutila, ma in sostanza di una stanza proemiale interrotta.

42)    Domenico De Robertis, Nascita della coscienza letteraria italiana …, cit., p. 13 nota 1.

43)    Pier Vincenzo Mengaldo, De Vulgari eloquentia …, cit., pp. 11-12; 14-17. Per la datazione del De Vulgari Eloquentia si risale al 1304-1305; cfr. Pier Vincenzo Mengaldo, p. 3: “steso in parte prima del febbraio 1304 (morte di Giovanni di Monferrato, nominato come vivente a I, XII, 5)”.

44)    Ivi, p. 219.

45)    Giorgio  Inglese, “… illa Guidonis de Florentia Donna  me  prega” (Tra Cavalcanti e Dante), in Giorgio Inglese, L’intelletto e l’amore: studi sulla letteratura italiana del Due e Trecento, Firenze, La nuova Italia, 2000,  p. 49, nota 88.

46)    Enrico Malato, Ancora su Dante e Guido Cavalcanti …, cit., p. 76.

47)    Giorgio  Inglese, … illa Guidonis de Florentia Donna  me  prega, cit., p. 49.

48)    Ivi, p. 47-

49)    Le parole virgolettate di Contini in Renato Bertacchini, “Continiana”, in Studium, luglio-agosto 1990. N. 4,  p. 605.

50)    Enrico Cocchia, La sintassi Latina esposta scientificamente, Napoli, 1890,  pp. 303-305.

51)    Ivi, p. 304. La medesima connotazione “intensiva” di etiam  è ribadita anche nelle sintassi latine più recenti; a tal proposito, mettendo a confronto  etiam, quoque,  e immo, si rileva  che mentre “etiam ‘aggiunge’ mettendo in rilievo rispetto agli elementi già considerati (=in più, persino), quoque, sempre posposto, aggiunge,  mettendo sullo stesso piano” ( Cfr. Gian Biagio Conte, Emanuele Berti, Michela Mariotti, La sintassi del latino, Mondadori Education, 2006, p. 5).

52)    Nuovo Dizionario  dei sinonimi della lingua italiana di Niccolò Tommaseo, Milano, Per Giuseppe Rejna Editore-Libraio, MDCCCLVIII [1858], p. 608 n. 3235, col. I e II.

53)    Sulla questione delle “origini”  di “anche”, “ancora” e “pure” in italiano, cfr. quanto scrive Mario Alinei (L’origine delle parole, Roma, Aracne Editrice, 2009, pp. 563-567; per “pure”, cfr. p. 566.

54)    Della Volgare Eloquenza di Dante Alighieri. Traduzione di Giangiorgio Trissino, Milano, Presso  G. Bernardoni Tipografo-Editore, 1868, p. 80 . Sull’importanza e del manoscritto e della traduzione del Trissino non credo siano da spendere parole, cfr. comunque “Introduzione a Dante Alighieri”, Le Opere, a cura di E. Fenzi, con la collaborazione di L. Formisano e F. Montuori, Roma, Salerno Edizioni, 2012, Vol. III,  p. CXXIV: “Altro elemento importante di questa edizione è la riproposizione della traduzione di Trissino, stampata nel 1529, molto prima, dunque, della princeps del testo originale, edita da Corbinelli a Parigi solo nel 1577. Cosí, non si dà solo l’essenziale quadro di ciò che immediatamente precede e sul quale il De vulgari eloquentia si basa, ma anche il primo e principale elemento attorno al quale s’incardina la sua fortuna cinquecentesca entro l’ampio dibattito sulla lingua, dopo la lunga latitanza nei secoli XIV e XV (ma a muovere)”.

55)    Ferdinand Schultz,  Piccola grammatica latina, Torino, Loescher, 1877,  p. 155 nota 3. Su persino/perfino gli studi linguistici contemporanei  sui cosiddetti “focalizzatori” comportano inferenze davvero notevoli. Francesca La Forgia ( “Alcune osservazioni sui focalizzatori”, in Studi Italiani di Linguistica Teorica e Applicata, 2006, XXXV, 2,  p. 363), con riferimento a “pure” e al semplice “anche”, rileva che “tra i focalizzatori additivi sono classificati anche gli avverbi addirittura e perfino/persino che hanno un comportamento leggermente diverso da quello di anche (e pure), dal momento che ‘producono inferenze relative alla valutazione dell’evento da parte del parlante’”. “I  focalizzatori, spiegano  Marco Favaro e Eugenio Goria , […]  da un lato agiscono sul significato di singoli costituenti  frasali,  dall’altro  interagiscono  a  livello  più  generale  con  la struttura  informativa  dell’enunciato”. Nelle frasi seguenti: a. Anche Giorgio è arrivato. b. Persino Giorgio è arrivato, “ un focalizzatore come anche in (a) presenta un uso non-soggettivo (esclusivamente referenziale), un focalizzatore scalare  come persino in (b)  –  che  colloca  cioè  il  costituente  su  cui opera su una scala ordinata di elementi alternativi – presenta anche un valore soggettivo, in quanto attiva l’inferenza che il parlante valuta il costituente su cui opera persino come un valore inatteso tra le possibili alternative” (Marco Favaro-Eugenio Goria, “Effetto del contatto sullo sviluppo di particelle modali. Il caso di solo”, in Le tendenze dell’italiano contemporaneo rivisitate, in Atti del LII Congresso Internazionale di Studi della Società di Linguistica Italiana, Berna, 6-8 settembre 2018, a cura di Bruno Moretti, Aline Kunz, Silvia Natale e Etna Krakenberger, Roma, Società di Linguistica Italiana, 2019,  p. 223.    Va da sé che il “persino-perfino-anzi (etiam) noi diciamo” dantesco attiva un “valore inatteso”, cioè un valore di “novità” rispetto a Donna me prega, e perciò l’etiam  potrebbe decretare  per Donne ch’avete una “posteriorità” di cui è molto difficile si possa dubitare, se non operando un sacrilegio contra gramaticam (in senso dantesco).

56)    “Copulative Conjunctions” in A First Book in Latin, by John McClintock and George R. Crooks, New York, Harper & Brothers, Publishers, 1855, p. 196.

57)    Uso elegante delle particelle latine. Trattato di Orazio Tursellino, Palermo, 1874, p. 72.

58)    Marco Tullio Cicerone Lettere Familiari, a cura di Mario Fuochi, Paravia, 1905, p. 164.

59)    Pio Rajna era assolutamente contrario al tentativo di metter mano al dicimus: “Il bisogno di sostituir diximus col Frat. e il Giul., non si può dir che ci sia. Dicimus danno i codici a proposito di questa medesima canzone II, viii, 7, ed è lezione ivi ben protetta (V. pag. 167 n. s); e nessuno si sogna di toccare il dicit che s’usa parlando di Virgilio in quei capitolo stesso, § 4. Che per solito s’abbia diximus, e che in un caso almeno (p. 178 n. 4) sia da correggere in diximus un dicimus dei mss., non son ragioni che bastino ( Il Trattato ‘De Vulgari Eloquentia’, per cura di Pio Rajna, Firenze, Le Monnier, 1896, pp. 183-184 nota 4). A parte che, nella Vita Nuova, Dante sembra mostrare, a detta di Franca Brambilla Ageno, una particolare predilezione per il presente indicativo [ “Il presente è il tempo abitualmente impiegato nel commento al contenuto di componimenti poetici; è perciò frequente nella Vita nuova e nel Convivio” (Franca Brambilla  Ageno, Il verbo nell’italiano antico: ricerche di sintassi, Milano, Ricciardi, 1984, p. 223) ], la notazione di Mario Marti parrebbe suffragata dall’uso dei verbi nel toscano antico, poiché, secondo Fredi Chiappelli, “il toscano dispone di un’ indicazione temporale relativa”.  A sua volta, Raymund Wilhelm, pur riferendosi a un contesto regionale diverso, notava che “è proprio il presente che nella metà dei casi traduce il perfetto latino” (Raymund Wilhelm, “L’uso dei tempi verbali nella Vita di Sant’Alessio di Bonvesin da la Riva”, in SintAnt, la sintassi dell’italiano antico, in Atti del Convegno internazionale di studi (Università “Roma Tre”, 18-21 settembre 2002), a cura di Maurizio Dardano e Gianluca Frenguelli,  Roma, Aracne Editrice, 2004, p. 476). Soffermandosi poi sul verbo “dire”, Wilhelm  notava che “in primo luogo si può constatare che le forme del perfetto tendono, in moltissimi casi, a confondersi con quelle del presente. Prendiamo la terza persona  singolare del verbo dire. Troviamo nella Vita di Sant’Alessio undici occorrenze di forme a ‘dice/disse’: otto volte dixe, due volte dise. I contesti non ci permettono di attribuire queste forme a due funzioni chiaramente distinte (presente/perfetto), visto che nella maggioranza dei casi sono intercambiabili fra di loro” (Raymund Wilhelm, Bonvesin de la Riva. La vita di sant’Alessio, De Gruyter, Max Niemeyer Verlag, Tübingen, 2006, p. 20).

 

 

 

 

 

 

 

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.