Tommaso Campanella, nato per “diveller l’ignoranza”

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Giovan Gaspare Orelli, pubblicando per la prima volta in Italia le “poesie filosofiche” di Tommaso Campanella, asseriva che egli, fin dalla giovinezza, aveva apprezzato la poesia del filosofo di Stilo, in Calabria,  nella traduzione di Herder. Giunto in Italia, Orelli si diede molto da fare per scovare le poesie di Campanella, ma, con sua enorme sorpresa, scoprì che nessuno da noi  aveva la più pallida idea del Campanella poeta, né Foscolo, né studiosi ed eruditi di fama, quali Mazzucchelli, Tiraboschi o Quadrio.

 

La cosa gli suonò davvero sorprendente, soprattutto perché, a suo avviso, nemmeno i sonetti di Giordano Bruno potevano gareggiare con quelli di Campanella, e, comunque, sempre a suo parere, “poche poesie  italiane son degne del nome di filosofiche” (p. IX). Orelli fu anche buon profeta, nel senso che previde acutamente che la lingua poetica di Campanella sarebbe stata poco apprezzata in Italia dai seguaci della Crusca:

 

“Ottimamente prevedo […] che gravi censure contro di esso scaglieranno i cruscanti unicamente intenti al linguaggio e al verseggiare” (p. X).

 

In effetti, la critica italiana più qualificata tra XIX e XX secolo (da Alessandro D’Ancona  a Benedetto Croce) ebbe sostanzialmente buona impressione delle poesie filosofiche di Campanella, ma sottolineò in genere la durezza della sua  lingua  poetica. Croce poi, com’era prevedibile, relegò la sua poesia  tra la “non poesia”; anzi, Campanella “non è solo rude, ma rozzo”: “Lo spirito contemplativo, e la congiunta virtù formativa e plastica, sono spesso soverchiati nel Campanella dal suo impeto di veggente e di uomo d’azione, tutto intento ad inculcare la sua fede, ad affermare e ragionare i suoi concetti, a battere con le sue aspre rampogne e i suoi feroci sarcasmi; e perciò egli è spesso non solo rude ma rozzo”.

 

Il D’Ancona, dal canto suo, dopo aver elogiato una poesia “di forte tempera”, non può negare  “che un maggior studio della forma non avrebbe reso più gradevoli le poesie dell’autore”.  Ci vollero parecchi annetti perché si giungesse a una “rivalutazione”  della poesia filosofica di Campanella, specie con Luigi FirpoGiovanni getto, il quale la definì un “esempio fulgidissimo delle possibilità della filosofia di tradursi in poesia”,  e  Antonino Verzera, per il quale occorreva superare le solite impressioni di rozzezza, per soffermarsi invece sul suo “mondo degli affetti, in cui si contemperano e mescolano a vicenda passione religiosa, nostalgia e rimpianto, confessione e preghiera, speranza e conforto, dandoci una compiuta autobiografia, anche meramente fisica, oltreché spirituale; coscienza nella propria missione”.

 

Una delle più potenti “poesie filosofiche” di Campanella è il sonetto in cui egli dice d’essere venuto al mondo per un solo scopo: quello di “diveller[e]”, ossia letteralmente “sradicare” l’ignoranza, perché essa è la radice di tutti i nostri malanni, guerre, carestie,  pestilenze e chi più ne ha più ne metta. Si riporta il sonetto nell’edizione di Orelli (1834):

 

Delle radici de’ gran mali del mondo

 

Io nacqui a debellar tre mali estremi

Tirannide, sofismi, ipocrisia:

Ond’or m’accorgo con quanta armonia

Possanza, senno, amor m’insegnò Temi.

Questi principii son veri e supremi

Della scoverta gran filosofia,

Rimedio contra la trina bugia,

Sotto cui tu piangendo, mondo, fremi,

Carestie, guerre, pesti, invidia, inganno,

Ingiustizia, lussuria, accidia, sdegno;

Tutti a’ que’ tre gran mali sottostanno:

Chè nel cieco amor proprio, figlio degno

D’ignoranza radice e fomento hanno.

Dunque a diveller l’ignoranza io vegno.

 

Dopo aver annotato che Temi è la dea della Giustizia, possiamo senza tema di smentita dire che l’intenzione di Campanella era ottima, ma che forse egli aveva un po’ sopravvalutato le sue capacità di incidere sulla realtà, tanto ne è che  il risultato, dopo tanti secoli (Campanella morì nel 1639), è ancora molto, molto incerto. Peccato, perché una poesia filosofica della tempra di quella di Campanella avrebbe meritato maggior fortuna.

 

E qui non posso tralasciare le parole di Luigi Firpo, che sembrano un “commento” a questo sonetto:

 

“Per Campanella non ha senso né scopo una  filosofia che sia fuori della vita […] Il consorzio civile, con tutti i suoi problemi etici, sociali e politici, è alla cima dei suoi pensieri […] L’uomo si guarda attorno: il paese spogliato ed oppresso è corso dai banditi, taglieggiato dagli Spagnuoli, predato dai Turchi; fuoriusciti disposti a tutto, frati irrequieti e peggio, malcontenti d’ogni ceto pullulano dovunque […] Egli sa di non essere venuto a distruggere, ma a riedificare; il suo posto non è tra i dissennati che battono dall’esterno le mura della fortezza cattolica, ma fra coloro che dall’interno faticano per dilatarle ai confini del mondo”.

 

Lessico filosofico campanelliano

 

Anche se in  questa sede non è il caso di prendere in esame la concezione filosofica di Campanella, si nota che, anche in questo sonetto si ripetono termini “tipici” del suo pensiero filosofico:

 

L’ armonia (v. 3) è infatti per Campanella una sorta di “tendenza” a Dio, proveniente da Dio stesso e che “indirizza” tutte le creature del mondo (animate ed inanimate) verso il loro “fine supremo”, cioè Dio.

 

Possanza, senno, amor ( v. 4), ossia il potere, la sapienza e l’amore rappresentano  per Campanella i tre principi costitutivi  di Dio, “ma anche”, ad un grado inferiore e più limitato, di ogni essere nel mondo.

 

Per le “sottigliezze” ritenute “sospette” della sua filosofia, e per l’accusa di “ribellione” al governo spagnolo, Campanella passò in  galera quasi trent’anni della sua vita.

 

Il minimo che poteva succedere a uno che pretendeva d’esser noto per “diveller l’ignoranza”.

 

 

Fonti:

B. Croce, Storia della età barocca in Italia. Pensiero, Poesia e letteratura. Vita morale, Bari, Laterza, 1946, pp. 239-242.

 

G. Getto, “La poesia di Tommaso Campanella”, in Lettere Italiane, 1983, XXXV, pp. 157-166.

 

Opere di Tommaso Campanella, scelte, ordinate ed annotate da Alessandro D’Ancona, Torino, 1854, Vol. I, p. CCCIII.

 

Johann Kaspar Von Orelli, Poesie filosofiche di Tommaso Campanella, pubblicate per la prima volta in Italia da Gio. Gaspare Orelli, Lugano, 1834, p. 13.

 

Scritti scelti di Giordano Bruno e di Tommaso Campanella,  a cura di Luigi Firpo, Torino Utet, 1949, pp. 13-24.

 

A.Verzera, La poesia di Tommaso Campanella: Saggio critico con antologia poetica, Napoli, Federico & Ardia, 1968,  p. 70.

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.