Virgilio, e il Fatum di Augusto

roma

 

Le guerre civili, con tutto lo sconvolgimento politico, sociale e morale che  produssero, costituisce il primum  per una comprensione accettabile del mondo in cui Virgilio si trovò a vivere. La nuova Costituzione di Augusto è il secondo punto di riferimento, non meno rilevante del primo.

 

 

Sarebbe qui interessante seguire analiticamente i fili tessuti dalla storiografia su questo periodo storico; ma m’accontenterò di puntualizzare soltanto due aspetti fondamentarli di quest’età: lo sconvolgimento operato dalle guerre civili, e la struttura portante del nuovo Stato inaugurato da Augusto.

 

 

Per quanto riguarda il primo punto, è tradizione discorrere di Pax Augustea; ma in realtà gli inizi del governo di Augusto coincisero con una crescente attività bellica, preceduta dalle guerre innescate da Cesare e Pompeo in Italia, in Spagna, in Grecia ed in Africa. Il bilancio che i contemporanei trassero da questa interminabile sequenza di eventi bellici lunghissimi (che comportarono non soltanto migliaia di morti, ma anche proscrizioni, taglie, requisizioni e confische di beni [e qui Virgilio la sapeva lunga], diserzioni, saccheggi e distruzioni di città, bande brigantesche, schiavi fuggitivi) era assolutamente disastroso, ma soprattutto disperante.

 

Le classi dirigenti, le più travolte dagli eventi, e quelle che avevano perduto di più in termini di ricchezze materiali,  pensarono seriamente che una Pax dovesse essere non soltanto necessaria, ma urgente. La nobiltà romana fu accontentata da Augusto, ma soltanto a metà.

 

L’Italia infatti nell’ età augustea godette di un periodo abbastanza lungo di tranquillità, ma le guerre non scomparvero:  esse furono strategicamente “esportate” all’estero, per cui gli eserciti di Augusto, la sua “spina dorsale” (Santo Mazzarino),  si mossero poderosi verso nuove guerre di conquista in Europa.  In questo senso, sembra Augusto possedesse quella che Santo Mazzarino definì una “visione europea” dell’espansionismo romano: dal 21 al 19 a. C. Augusto rafforza “il dominio romano nella Spagna”; poi riversa le sue legioni in Pannonia, e in seguito, proseguendo il progetto di Cesare,  fu la volta della Mesia e della Germania oltre il Reno, fino a Teutoburgo (Santo Mazzarino).

 

Tali guerre erano assolutamente necessarie ad Augusto, per conseguire nuovi territori,  nonché le risorse economiche indispensabili sia per mantenere  ben oliata e in forma la sua “spina dorsale”, sia per compiacere, attraverso l’acquisizione di  allettanti  bottini,  anche le classi dirigenti di Roma e degli Italici. In sostanza, Augusto ebbe sempre un disperato bisogno di denaro: “Impero comincia a significare, spiegava ottimamente Santo Mazzarino, altresì burocrazia: le procuratele equestri e le funzioni dei liberti vanno remunerate sulla base di compensi monetari […] (e) l’istituzione augustea  di una vera e propria burocrazia imperiale […] stabiliva, in ogni modo,  il principio del compenso in denaro”.

 

Ma nella Caput Mundi, invece, Augusto agì in tutt’ altro modo. A Roma  l’imperatore lavorò di fino per rafforzare il proprio potere, “integrando” soprattutto gli intellettuali migliori a sostegno del suo nuovo ordine politico; ossia  a sostegno dell’ideologia del Prìncipe, caratterizzata da alcune parole chiave: l’ordine, la pace, l’esaltazione delle robuste e sane virtù contadine, della terra, e delle origini contadine di Roma. Fu dunque da tale ideologia del Principe che nacquero L’Eneide, certo Orazio,  mentore l’onnipresente e potentissimo  Cilnio Mecenate, il Carus Maecenas eques, il  carissimo Cavalier Mecenate, come lo definiva Orazio (Santo Mazzarino).

 

Verrebbe da chiedersi (e qualcuno se l’è anche posto il problema) quali fossero stati  i reali rapporti di Virgilio con il potere ( il Prìncipe, e  Mecenate). Tra le molte risposte, quella che possiede un potere fortissimo di explanatio, e perciò la più verosimile, ci viene da Antonio La Penna, in cui il critico rileva come Virgilio, alla stregua di tutti i poeti augustei, se voleva lavorare in pace e campar la vita, aveva un assoluto bisogno della “protezione” del Prìncipe, nonché di tutti quei potenti personaggi che gli  “giravano” intorno, da Pollione a Gallo, su su fino a Mecenate (e all’Imperatore).

 

Dicevamo sopra che Virgilio “la sapeva lunga” sulle requisizioni di terre del tempo delle guerre civili: egli era infatti d’estrazione contadina, e suo padre era probabilmente un piccolo agricoltore, ma abbastanza ricco da permettersi di mantenere agli studi il futuro poeta delle Origini di Roma  a Cremona, poi a Milano, a Roma e a Napoli, dove Virgilio ebbe contatti con la filosofia epicurea, alla scuola di Sirone. Con la battaglia di Filippi, e le successive confische di terre a favore dei veterani, anche Virgilio perse il suo podere; ma poi, trasferitosi a Roma, ebbe la fortuna assurda di trovare protettori del calibro di Pollione e Gallo, donde nacquero le Bucoliche, le Georgiche, e, Opus Novissimum, l’Eneide.

 

L’Eneide piacque moltissimo ad Augusto, al di là degli aspetti intrinsecamente letterari e linguistici, che conservavano tracce della lingua latina degli antichi padri, con quegli aulici ed arcaici genitivi in -āī, che non dovettero per nulla essere dispiaciuti ad Augusto, anche se è molto probabile che Virgilio li usasse, spudoratamente, per utilitaristiche ragioni metriche.

 

Ma, insomma, l’Eneide piacque ad Augusto per diverse ragioni. Intanto perché Virgilio risolse in modo originale e convincente il rapporto con il mito del potere: Enea, il Pius Aeneas, si mostra come un uomo in grado di sacrificare le proprie personali inclinazioni, anche affettive (leggi Didone) per realizzare un arcano disegno del Fatum, ovvero ciò che è stato inesorabilmente deciso dagli Dèi Sùperi, e che deve accadere. Il rapporto con il Fatum, ossia con la “ragione superiore” che governa indefettibilmente il mondo (FatumZeusAugusto) è instituito da Virgilio in modo assolutamente “positivo”.

 

Per farla breve: Virgilio suggerisce l’idea fondante di un ordine universale che governa il mondo, che egli riesce a far convivere in Enea con la virtus, una parola che dev’essere intesa soprattutto come volontà di combattimento, o valore in guerra (A. La Penna). Pertanto l’accettazione del Fatum da parte di Enea si viene a configurare come una volontaria “subordinazione” ad una volontà superiore (FatumZeusAugusto), che vuole instaurare un nuovo ordine mondiale, che comporterà la fondazione dell’Urbe e dell’Impero Romano.

 

L’accettazione del Fatum non esime né Enea, né i suoi compagni dal “dolore” e dalle fatiche; anzi,  il conseguimento dell’obiettivo richiede un diuturno esercizio della virtus, come a dire, della volontà di combattimento per giungere al Lazio, donde i Sacri Colli dell’Alma Roma. La struttura ideologica sottesa cripticamente al Poema (ma non “invisibile”) pertanto piacque immensamente ad Augusto, che ne comprese immediatamente il valore di finissima (ed insperata) propaganda per l’ulteriore sviluppo e propagazione delle proprie idee a Roma e nell’ Italia tutta. L’imperatore addirittura seguiva attentamente gli sviluppi in itinere dell’opera, teste Donato, che nella Vita Virgilii, ci narra come

 

“Augustus vero, nam forte expeditione Cantabrica abesset, & supplicibus atque  minacibus per iocum  litteris efflagitaret, ubi sibi ‘de Aeneide’, ut ipsius verba sunt, ‘ vel prima carmina hipographa [sic = hypograhé], vel quodlibet colon  mitteret’ ”; che è come a dire che Augusto, essendo distante da Roma per via della spedizione cantabrica, spediva missive talvolta supplichevoli, ma talora scherzosamente minacciose, perché gli si inviassero, sono parole sue, “ abbozzi del poema, o almeno qualche sia pur breve estratto dell’opera” (Tib. Claudii Donati De P. Virgilii Maronis Vita) [Trad. mia].

 

L’Imperatore cioè capì appieno ( e al volo) che l’ invenzione dell’Eneide era l’incarnazione letteraria del  suo messaggio politico universale,  da veicolare al più presto  nei Romani del suo tempo e alle future generazioni: la pietas verso gli Dèi e il Fatum, la virtus, la clementia (di Enea e la Sua, quella dell’Imperatore Magnanimo) verso gli avversari sconfitti.

 

Ad Augusto non pareva vero di aver “scoperto” e  “protetto” un poeta che aveva saputo interpretare il Suo pensiero in maniera così fine ed elegante, senza risultare smaccatamente adulatorio, come in genere accade. Fu per queste ragioni che l’imperatore letteralmente salvò dalle fiamme il Poema che Virgilio voleva distruggere prima di morire. L’Eneide, per Augusto, non era un Poema Epico, era il Suo Poema:  il Suo Testamento Politico.

 

Fonti:

 

Santo Mazzarino, “La politica estera di Augusto”, in L’Impero romano, Bari Laterza, 1973, Vol. I,  p. 84, pp. 82-84, 90, 88.

 

Su alcuni aspetti della biografia di Virgilio,  sulla “politicizzazione della poesia”, nonché sui rapporti di Virgilio con i suoi potenti protettori, cfr. A. La Penna, “Il canto, il lavoro, il potere”, in  Virgilio, Georgiche, a cura di A. La Penna, Milano, Rizzoli, pp. 5-12, 43, 47, 83 sgg.

 

Sui genitivi di Virgilio  in -āī, e su altri arcaismi, cfr. quanto dice L. R. Palmer, La lingua latina, Torino, Einaudi, 1977, pp. 1237-138.

 

Su Fatum, virtus e clementia, cfr. A. La Penna, L’impossibile giustificazione della storia: un’interpretazione di Virgilio, Bari, Laterza, 2005, p. 260,  278.

 

Su Enea, cfr. A. La Penna, Il potere, il destino, gli eroi. Introduzione all’ ‘Eneide’, in P. Virgilio Marone, Eneide, “Introduzione” di A. La Penna, trad. di R. Scarcia, Milano, Rizzoli, 2002,  pp.63 sgg.

 

Tib. Claudii Donati ad Tib. Claudium Maximum De P. Virgilii Maronis Vita, in P. Virgilii Maroni Opera, Amstelodami [Amsterdam], apud  A. Wolfgang, MDCLXXX [1680],  p. 2.

Pubblicato da Enzo Sardellaro

Ho insegnato per molti anni letteratura e storia, e scrivo articoli e saggi relativi a questi settori.